Il ruggito un po' svogliato del re leone
Inutile girarci attorno: per me, Il re leone è puro cinema allo stato dell'arte. Tra le vette più elevate mai toccate in tutta la storia dell'animazione, il classico del 1994 è l'eccezionale quadro in movimento simbolo di una Disney ormai rediviva, la quale - come Simba ascende alla Rupe dei re – raggiunge l'apogeo della sua poetica. Risultato frutto di uno stato di grazia clamoroso che, appunto, seppur sfiorato in rare altre occasioni, non riuscirà più a ripetere in futuro. E sì, amici di Kimba, so che forse state già sbuffando per la presunta storia del plagio: eppure credo sia sufficiente un briciolo di senso critico per constatare come Il Re Leone, nella sua totalità, si ponga ben al di sopra di una semplice ispirazione o a dei paralleli visivi.
Senza grosse sorprese, quindi, vi confesso che il capolavoro di Rob Minkoff e Roger Allers è anche il mio lungometraggio Disney preferito in assoluto, nonché un'opera alla quale ho sempre riconosciuto sia un fortissimo impatto sulla mia crescita personale che una marcata influenza per lo sviluppo della mia - chiamiamola così - sensibilità artistica. Ma perché, a prescindere dai gusti personali, Il re leone è un classico senza tempo?
Un autentico classico si potrebbe definire tale nella misura di quanto esso riesca a conservare intatta nel tempo la potenza del suo messaggio, perfino amplificandolo: non solo la storia di crescita di Simba possiede una carica universale e praticamente immortale, può vantare anche l'enorme pregio, proprio solo delle grandi opere, di maturare di significato assieme allo spettatore stesso, man mano che viaggia verso l'età adulta. Ogni visione de Il re leone, in momenti diversi della mia vita, ha saputo regalarmi sfaccettature nuove e inaspettate. E se mai un giorno diventassi padre, ne sono certo, succederà ancora.
Ma veniamo dunque al “qui e ora”. In un giorno qualsiasi, Disney ha deciso di schizzare in trending e confezionare una marmellata coi nostri sentimenti, schiaffando in faccia al mondo il teaser trailer del remake di Il re leone: ruggirà dal 19 luglio 2019, giusto in tempo per celebrare i venticinque anni dall'esordio, ché le ricorrenze son cose importanti. Soprattutto quando si tratta di batter cassa.
Un altro remake di una vecchia gloria, sulla scia (o quasi) di quanto fatto con Il libro della giunga, La bella e la bestia e altri (con anche Aladdin e Dumbo in arrivo), ma non chiamatelo live-action: stavolta, di “vero” non c'è davvero nulla, essendo il film completamente animato in computer grafica.
Ovviamente, attendevo il momento della rivelazione con sincera curiosità. Ad essere sincero, anche in modo abbastanza prevenuto, in quanto scettico della prima ora nei confronti di queste operazioni di sfruttamento del brand, tanto “fedeli”, quanto pigre e fini a se stesse. E l'aspetto peggiore, forse, è che il teaser trailer mi è apparso esattamente come l'avevo immaginato, peraltro non spostando di una virgola i dubbi che covavo, anzi. Beh, che dire, ormai esiste: parliamone.
Togliamoci subito il dente, anzi, la zanna: il colpo d'occhio è sbalorditivo, il livello di dettaglio dei manti bestiali allucinante; un vulgar display of power in pieno muso che quasi non distingue reale da fittizio (trema, Avatar 2!) e, soprattutto, uno showcase tecnologico che ti ricorda subito chi è che fattura di più.
Inoltre, c'è tutto quello che vorresti vedere. Sì, ragazzo nato e/o cresciuto negli anni Novanta, dico a te. Tutto dannatamente giusto, ma al contempo ruffiano oltremisura. D'altronde, se riproponi quasi shot-by-shot una fra le aperture più memorabili di sempre, aggiungi la famigerata carica degli gnu imbufaliti e mi piazzi pure immagini iconiche come l'orma di Mufasa, non vuoi certo che rimanga indifferente, vero?
E invece, almeno per quel che mi riguarda, la scintilla non è ancora scoccata. Non funziona così, Disney. Siete oltretutto piuttosto stronzi, poiché l'ultima cosa che desidero al momento è assistere a quella morte una seconda volta, per giunta nella cornice di un realismo esasperante.
Sarebbe invece decisamente più interessante se questi rifacimenti fornissero una benché minima revisione dell'opera di base, una prospettiva differente e rimodernata sugli stessi temi, ma così non sembra: allora ecco che - comprensibilmente - fioccano a dismisura i paragoni scomodi con l'originale e i dubbi sulla necessità ed efficacia (artistica, mica commerciale) di tali iniziative.
Peraltro, ritengo la vicenda de Il re leone fra le meno adatte a ricevere il trattamento remake: rifacendosi esplicitamente all'Amleto shakespeariano, è in primo luogo un racconto di animali che si fanno portatori di valori universali, in cui disegno, colore e animazione si combinano virtuosamente per narrare una storia nella quale l'uomo - pur non comparendo mai - è sempre rappresentato dall'intensità dei personaggi e dalla plausibilità di azioni ed emozioni. È alla base della filosofia Disney: l'illusione di vedere non più animali parlanti ma uomini dai tratti autentici.
“Ehi, Hakuna Matata”, direte voi. Un cazzo. Come potrei empatizzare allo stesso modo, senza poterne apprezzare l'espressività, con bestie fotorealistiche che discutono, cantano, scherzano, amano e odiano neanche fossero uscite dal più grottesco dei documentari in onda su Discovery Channel? Per quanto storia e personaggi possano essere ben scritti, il distacco emotivo mi sembra un rischio sempre dietro l'angolo. Laddove poi altri magari vedono una qualità nell'estrema aderenza all'originale, io percepisco solo limiti: benché brutalmente avanzata, la CGI non riesce a restituirmi la stessa libertà interpretativa del disegno, né la medesima gamma emozionale. Non riesco davvero a vedere altro senso in questi remake oltre a quello di invogliare a tornare al cinema facendo leva su sensazioni familiari e confortanti, sfruttando la pretesa di essere leggermente diverse. In definitiva, sono forse anche peggiori, in quanto inevitabilmente ricostruite in modo artefatto dalla macchina della nostalgia. E non veniamoci a raccontare la trita storiella che in Disney scarseggino le idee, perché quel colpaccio recente di Zootropolis (2016) è il più lampante esempio di cinema d'animazione fresco, al passo coi tempi, capace di reinventarsi con intelligenza e con sagace autoironia. Nel frattempo, non resta che augurare un grosso in bocca al leone a Jon Favreau.