Il Villaggio dei Dannati mi ha fatto scoprire John Carpenter e Rod Serling
Con il cinema horror ho sempre avuto un rapporto controverso.
Si tratta di un genere che ho bellamente ignorato per anni, fino a quando, tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, complici anche le uscite in comitiva in cui si finiva sempre al cinema, ho visto più o meno tutto ciò che usciva in quel periodo: Scream, il remake di Non aprite quella porta, i vari Saw, e roba di dubbia qualità come So cosa hai fatto, The Faculty e Urban Legend.
Nonostante siano film ad alto tasso di salsa di pomodoro (un termine che ho sentito spesso per indicare il sangue palesemente finto), non mi hanno mai provocato alcuna turba emotiva, nemmeno in giovane età: ero perfettamente consapevole che si trattasse di semplice intrattenimento, e vedere un maniaco armato di motosega o coltello che inseguiva urlanti biondine non mi ha mai spaventato, anzi, trovavo l’intera faccenda più comica che spaventosa.
Poco tempo prima, invece, la visione di uno spezzone de Il Villaggio dei Dannati mi aveva profondamente inquietato.
Credo fosse il 1996 o giù di lì, quando a casa mia arrivò la VHS del film in questione. Era una di quelle edizioni da edicola, generalmente abbinate a qualche periodico. Colto dalla curiosità, lo guardai, ma ad un certo punto, complice una scena particolarmente inquietante, stoppai la visione e tirai fuori la VHS dal videoregistratore, ripromettendomi di non guardare mai più quel film.
Una decina d’anni dopo, passarono il film in TV in seconda serata e decisi di rivederlo. Ormai avevo sviluppato sufficienti anticorpi nei confronti del cinema di genere ed ero pronto a guardarlo fino alla fine, avendo tra l’altro anche dimenticato il motivo per cui mi aveva turbato. Poi lo avevano anche inserito fra i Bellissimi di Rete 4, eh, non si poteva mica non vederlo.
Il film vede al centro della vicenda il piccolo villaggio americano di Midwich, il classico paese dove tutti si conoscono e tutti sanno tutto di tutti. Durante una specie di sagra di paese, gli abitanti svengono misteriosamente. Una volta ripresa conoscenza, oltre a notare che un paio di loro sono morti tragicamente, si scopre che una decina di donne sono rimaste incinte. Il governo, che sta indagando sull’accaduto, offre un ricco assegno mensile a chi decide di portare avanti la gravidanza. Inutile dire che accettano tutte di mettere al mondo non-si-sa-bene-cosa in cambio del denaro. Il film fa un lungo salto temporale e scopriamo che le creature venute al mondo sono bambini solo in apparenza: pelle chiara, capelli bianchissimi e pupille che diventano luminose quando azionano i loro poteri mentali, usati, neanche a dirlo, per fare del male: ogni qualvolta sentono di essere minacciati dagli adulti, fanno in modo che questi si auto-eliminino da soli o che si feriscano gravemente. La scena che all’epoca mi aveva turbato vedeva uno dei bambini spingere la madre a infilare il braccio in un pentolone di acqua bollente; era inquietante non tanto per l’episodio in sé quanto per il fatto che una bambina potesse fare una cosa del genere. Poi, com’è prevedibile immaginare, la comunità di Midwich farà fronte comune per cercare di debellare la minaccia (tra l’altro nel cast erano presenti Christopher Reeve e Mark Hamill: chi meglio di Superman e Luke Skywalker per fronteggiare degli alieni?).
Rivisto in età adulta, Il Villaggio dei Dannati mi ha un po' spiazzato. Si tratta di un film in apparenza grezzo – con un secondo atto un po' troppo tirato via – ma che fa soprattutto riflettere sulla natura umana. I bambini alieni, per quanto siano inquietanti, agiscono in maniera violenta solo quando minacciati e non capiscono l’utilità dei sentimenti umani, anzi, li reputano una debolezza. Non hanno nemmeno un piano ben preciso; si limitano, in buona sostanza, a sopravvivere in una comunità a loro ostile. Uno dei bambini, David, non avendo la compagna, morta durante il parto, si sente incompleto, ma rifiuta di ammetterlo, così come si rifiuta di ammettere di provare un affetto, seppur minimo, per la madre. Rifiuta di provare dei sentimenti umani, quindi di essere debole. Sono più spaventosi i bambini alieni dalle origini sconosciute o gli abitanti del villaggio che li hanno accolti solo per denaro?
Si tratta di film d’intrattenimento ma densi di critica sociale, con frecciate più o meno velate alla politica, alla religione e alla scienza, con un occhio costante sulla psiche umana e sui suoi lati più oscuri e nascosti.
Un paio di anni dopo, nel 2008, guardai per caso, se non ricordo male durante il notturno Fuori Orario, il film originale: oltre al fatto che si trattava di una pellicola in bianco e nero, era un film più asciutto e più diretto del remake di Carpenter: i bambini erano estremamente più inquietanti e venivano immediatamente percepiti come una minaccia, e il film era più una rappresentazione delle paure della società del dopoguerra che un ritratto sulla natura umana come quello di Carpenter, tant’è che il personaggio di David presente nel remake qui non c’è.
Se Il Villaggio dei Dannati di Carpenter mi aveva avvicinato alla filmografia del regista, il film originale mi aveva fatto conoscere Ai Confini della Realtà, trasmesso proprio dopo il film in questione. La pellicola di Wolf Rilla e la serie di Rod Serling avevano più di un punto in comune, oltre al bianco e nero: l’uomo comune alle prese con l’ignoto, il pessimismo di fondo, la fobia nei confronti di ciò che è diverso e, più in generale, la semplicità delle storie che mettevano al centro soprattutto la paura che cova nel profondo, negli angoli più remoti della mente. In particolare, l’episodio della serie classica “Un piccolo mostro” era molto simile al concept di base de Il Villaggio dei Dannati: Anthony, un bimbo di sei anni apparentemente innocuo, tiene sotto scacco i suoi famigliari grazie ai propri poteri psichici. Il bambino fa scomparire nel nulla qualsiasi persona non gli vada a genio (a maggior ragione se canta) e ha eliminato qualsiasi forma tecnologica nella sua cittadina, Peaksville. Chiunque abbia a che fare con lui, non ha altro modo di sopravvivere se non quello di assecondarlo in tutto.
In buona sostanza, ho sempre considerato molto più spaventoso ciò che non viene mostrato, ma ciò che viene solo accennato. Se negli slasher vedere gente trucidata barbaramente ha un effetto quasi liberatorio, come strumento per stemperare la tensione, l’horror psicologico sembra suggerirti che le tue paure più remote possano diventare reali, e che in alcuni casi il peggior mostro possibile sia proprio l’uomo.
Tornando a Il Villaggio dei Dannati, sia il film originale che il remake di Carpenter condivisero più o meno la stessa sorte: dopo performance in sala assai poco fortunate, sono diventati dei cult, tant’è che il film di Wolf Rilla è stato parodiato anche dai Simpson nell’episodio Schermaglie fra generazioni. Nell’estate del 2020 è stata annunciata la serie TV della pellicola in questione ma ancora non si sa nulla di preciso sul cast o sulla data di uscita.
Purtroppo John Carpenter non dirige più un film da undici anni, dopo il flop di The Ward, e in cuor mio spero che un giorno gli torni la voglia di girare un nuovo film dopo aver finito di giocare ad Assassin's Creed Valhalla.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alle città di paura, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.