Outcazzari

In Other Waters: di mappe, conoscenza e cambiamento

In Other Waters: di mappe, conoscenza e cambiamento

Da qualche parte, qualcosa di incredibile attende di essere conosciuto.
— Carl Sagan.

Questa frase del celebre scienziato riassume benissimo l’essenza del gioco di cui sto per parlare. La voglia, l’esigenza innata di esplorare e scoprire, accompagna l’uomo sin da quando è apparso sulla Terra, e vari sono i motivi che possono spingerlo a viaggiare verso regioni diverse, più o meno lontane da quelle di origine. Motivi economici, militari, di sopravvivenza o di pura conoscenza.

A partire dai fenici e dai greci che, nell’età classica, si muovevano lungo le coste del mediterraneo, passando per i romani che si espansero per gran parte dell’Europa, dell’Africa e del Medio Oriente, fino ad arrivare a Cristoforo Colombo, Marco Polo, James Cook e David Livingstone che incarnano l’essenza stessa dell’esploratore, tutte le epoche sono state percorse dalle scoperte di nuovi territori e con essi di nuovi animali, piante, funghi, batteri.

Nella seconda metà del Diciannovesimo secolo si afferma un nuovo campo di esplorazione, quello delle ricerche oceanografiche, dedicato alle caratteristiche dei fondi marini. Il progresso tecnico è molto rapido; si passa dai novecentoventitré metri di profondità del 1930, agli oltre diecimila nella del 1960, ovvero quelli della fossa delle Marianne. Appena un anno dopo, il lancio della capsula spaziale con il russo Gagarin a bordo apre all’esplorazione dello spazio circumterrestre e, successivamente, a quello extraterrestre fino allo sbarco, nel 1969, dei primi uomini sulla superficie lunare. 

La prima mappa del 1907 della Fossa delle Marianne.

Se pensiamo che persino un regista famoso come James Cameron e un miliardario texano di nome Victor Vescovo si sono spinti nelle profondità degli abissi e che, tra qualche anno, un turista giapponese viaggerà intorno alla luna con il razzo spaziale di Elon Musk, possiamo capire quanto ancora l’uomo sia mosso dal sacro fuoco dell’esplorazione (pecunia permettendo).

Per noi comuni mortali che abbiamo voglia di esplorare luoghi sconosciuti non resta che vivere esperienze interattive multimediali, tipo quella che ho recentemente acquistato su Switch per un pugno di euro: In Other Waters. Un’opera acuta e curata nei minimi dettagli al netto del minimalismo; arcaica e innovativa allo stesso tempo nonché assolutamente in grado di soddisfare la voglia di scoperta e conoscenza.

Tutto quello che vedremo durante il gioco, o poco più.

Forse avrei potuto buttarmi su qualche open world tripla A come The Witcher 3 o The Legend of Zelda: Breath of the Wild, ma ho scelto di non farlo per una manciata di ragioni che andrò a enunciare.

La prima: da tempo sperimento soltanto titoli indie, ma indie veramente, preferibilmente sviluppati da una sola persona o da un team piccolissimo. In questo caso parliamo del “one man studio” Jump Over the Age fondato dallo scrittore, designer e artista inglese Gareth Damian Martin. Dopo anni spesi nel giornalismo videoludico, nella grafica e nella letteratura sperimentale, il nostro ha preso tutta l’esperienza accumulata e ha deciso di infonderla nella sua prima opera. Va anche detto che non ho più il tempo né la voglia di girovagare tra quest principali e secondarie che mi fanno calare la palpebra per ottanta-cento-centocinquanta ore. In Other Waters si porta a termine in circa otto ore, sedici se si desidera completarlo al cento per cento.

La seconda: con la sua grafica minimalista, il gioco di Gareth Damian Martin fa lavorare molto l’immaginazione. Per molti potrebbe essere un difetto, ma non per chi come me è cresciuto con le avventure testuali ed è abituato a leggere molto.

Quarta: il lavoro fatto da Gareth nel tirare su un mondo extraterrestre popolato da vita aliena è a dir poco encomiabile. Come un novello Darwin, il nostro ha ricostruito un manuale di tassonomia biologica che sembra uscito veramente da un pianeta alieno.

Quinto e ultimo motivo: l’esperienza offre un’eleganza senza pari nella sua unicità. Quella di In Other Waters è un’atmosfera rarefatta, organizzata, tecnica; con scelte cromatiche di una semplicità disarmante ma assolutamente pregevole e contestualizzata. Mi ha ricordato tanto un piccolo libro anch’esso intrecciato alle mappe, l’Atlante Tascabile delle Isole Remote di Judith Schalansky. 

I colori, assieme all’uso ragionato dell’impaginazione e dei font, ricordano tanto questo libro.

Ma cos’è, esattamente, In Other Waters?

Alla spiccia, parliamo di un walking simulator mescolato a un’avventura testuale dove impersoniamo l’IA di una scafandro guidato da una xenobiologa di nome Ellery Vas, che indaga le profondità oceaniche del pianeta Gliese 667Cc alla ricerca della sua amica Minae Nomura.

Attraverso il radar potremo esplorare le varie porzioni della mappa del pianeta per raccogliere esemplari biologici da classificare e per raggiungere luoghi importanti ai fini del prosieguo della narrazione. Proprio la mappa e i simboli su di essa sono forse l'aspetto più importante del gioco. Infatti non vedremo mai il pianeta e tutte le forme di vita che lo popolano con occhi umani, bensì attraverso una rappresentazione grafica semplificata.

Questo libro spiega benissimo cos’è una mappa.

Nel monumentale libro La storia del mondo in dodici mappe di Jerry Brotton, l'autore si interroga sull’importanza e la necessità delle mappe.

L’impulso a disegnare mappe e carte geografiche è un istinto umano fondamentale e immortale. Dove saremmo senza? La risposta ovvia è, naturalmente, “saremmo perduti”, ma le carte non servono solo a capire come fare ad andare da un luogo a un altro: forniscono risposte a molte altre domande. Fin dalla prima infanzia, definiamo noi stessi in rapporto al mondo fisico in cui viviamo elaborando informazioni relative allo spazio. Gli psicologi chiamano questa attività, lo strumento mentale grazie al quale gli individui acquisiscono, catalogano e richiamano informazioni sul proprio ambiente spaziale, “mappatura cognitiva”. Attraverso la mappatura cognitiva ciascuno di noi si differenzia e si definisce spazialmente rispetto al mondo smisurato, terrificante e inconoscibile che sta fuori.

È proprio questa la sensazione che si prova giocando In Other Waters. Un misto di horror vacui e paura per l’ignoto e, allo stesso tempo, la costante necessità di andare avanti. Il giocatore, credetemi, si sente quasi in dovere di esplorare ogni singolo angolo della mappa, raccogliere e catalogare tutte le specie possibili oltre a dipanare la storia di Ellery e Minae e dello stesso pianeta Gliese 667Cc. Sarà grazie alle parole della xenobiologa che riusciremo ad avere un'idea precisa di quello che la mappa stilizza e semplifica, ma mai un’immagine o una foto per tutto il gioco. In questo il titolo è arcaico, ritorna alle origini delle avventure testuali, a quel Colossal Cave Adventure che, nel 1976, ricreava a parole la topografia della Mammoth Cave nel Kentucky.

Nell’organizzatissima sezione “Taxonomy” troviamo gli unici schizzi presenti in tutto il gioco.

Oltre che nell’aspetto estetico e di design, In other waters eccelle anche dal punto di vista del racconto, che si muove su vari livelli. È, in primis, un viaggio archeologico nelle profondità marine alla scoperta di un segreto ben celato. È una delicata storia d'amore tra due ricercatrici e scienziate isolate nelle profondità di alieno. È il rapporto intimo che si sviluppa tra Ellery e l'IA della sua tuta, unico interlocutore con cui confidarsi. È una riflessione sullo sfruttamento delle risorse del pianeta da parte di multinazionali senza scrupoli. È la voglia di conoscenza e di scoperta che spinge da sempre l’essere umano ad intraprendere viaggi rischiosi. È la necessità di sapere chi siamo e conoscere le nostre radici a rischio della vita. È un’inevitabile presa di coscienza che la vita cresce e si sviluppa nelle condizioni più impensabili ed estreme. Interi e variegati ecosistemi convivono in luoghi inospitali dove sembra impossibile qualsiasi forma di vita; anche l'essere umano alla fine cambia per adattarsi e, a volte, non resta che accettare il cambiamento.

Ho giocato In Other Waters esclusivamente in modalità portatile, di notte e a letto, mentre il resto della mia famiglia dormiva (d’altronde, finché non ricomincerà la scuola quello è l’unico momento che ho per farlo: ti prego, Covid, non chiudere ancora le scuole!). La vicinanza dello schermo, le cuffie nelle orecchie, il silenzio profondo e il buio hanno contribuito a rendere l’esperienza immersiva e intima: il mio consiglio è di avvicinarsi al gioco proprio in questo modo, per godere al meglio di tutta la magia che ha da offrire.

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