Lilo & Stitch: avrei potuto pensarci prima
Del 2002, stranamente, non ricordo nulla di particolare. Niente aneddoti controversi, zero ganci per intro da brillantone, niente di niente. Galleggiavo tranquillo nel mondo al groviera dell’università, fumavo più del dovuto e andavo spesso al cinema.
Tra l’altro, stando a quel che leggo sull’internet, era stata pure una discreta stagione. C’erano in giro lo Spider-Man di Raimi, Prova a prendermi, Panic room, Dolls, l’indeciso ma fascinoso Gangs of New York e cose così. Poi, OK, erano uscite pure puttanate ingiustificabile tipo Era mio padre e, soprattutto, il peggior Star Wars della storia, ma insomma, non ci si lamentava.
Sempre nel 2002, girava questo film d’animazione in cui una specie di Koala extraterrestre finiva su un'isola hawaiana, e lì faceva amicizia con una ragazzina. Un film che, stando ai trailer e al design generale, pareva pure figo, ma tuttavia non andai a vedere, come la maggior parte della roba Disney saltata fuori tra la fine degli anni Novanta e metà Duemila.
Non certo per snobismo, eh, né tantomeno per defezione verso le robe in computer grafica che stava tirando fuori Pixar. No, proprio per caso. Per anni, ho semplicemente avuto questo vuoto totale tra Hercules e Winnie the Pooh.
Vuoto che ho deciso di cominciare a riempire, timidamente, con l’arrivo di Disney+, proprio a partire da Lilo & Stitch, scelto un po’ per simpatia e un po’ perché spiando su IMDB ho notato che aveva dietro Dean DeBlois e Chris Sanders, gli stessi registi dell’ottimo Dragon Trainer. Tra l’altro, la familiarità postuma con le avventure di Hiccup e Sdentato è evidente, soprattutto per quel che riguarda l’impostazione del rapporto tra la ragazzina e l’alieno e, naturalmente, per la cura riposta nella caratterizzazione di quest’ultimo (se avete mai avuto un cane o un gatto, sapete esattamente di cosa parlo).
Sia Lilo che Stitch sono due outsider rispetto all’ambiente che li ha sfornati. Due di quelle anomalie equamente versate per andare alla deriva oppure brillare, a seconda delle circostanze, e che in questo caso riescono a sollevarsi dai rispettivi traumi grazie alle persone (e alle creature) che li circondano, ma soprattutto attraverso una solidarietà reciproca che li porta a raggiungere il proverbiale “equilibrio tra squilibri”.
Adoperando un design irregolare un po’ à la Steve Purcell, appiccicato su sfondi dipinti ad acquerello che a Burbank non si vedevano dai tempi di Dumbo, DeBlois e Sanders assecondano un racconto pure quello ibrido, che mescola comicità, follia ma anche tantissima umanità. Lilo è una fra le più credibili “ragazzine difficili” che abbia mai visto in un’opera di narrazione (nonostante non faccia nulla per arruffianarsi lo spettatore) e il suo rapporto con la sorella è realistico al cento per cento. Così realistico che riesce a farti innervosire, commuovere e metterti ansia assieme.
Per di più, il film riesce a gestire le tribolazioni delle due senza sfociare nel manicheismo, portando sotto i riflettori sia i benefici che le problematiche di una situazione familiare parecchio complicata, in cui nessuno ha completamente ragione né completamente torto.
Poi c’è Stitch, che impossibilitato a seguire la propria vocazione distruttiva, con l’aiuto della sua nuova amica, pian piano impara a dominare gli istinti, fino a conquistare la fiducia di chi lo aveva buttato via senza dargli nemmeno un chance. Ma in generale, quello di avvicinamento e tolleranza è un percorso che viene praticato da tutti i personaggi a due a due, compresi Pleakley e il dottor Jumba Jookiba, creatore/papà dell’alieno blu. Di fatto, pure quello che dovrebbe essere l’antagonista della situazione, il capitano Gantu, non è esattamente il male incarnato.
Quindi sì, Lilo & Stitch è stato una vera scoperta. Immaginavo fosse figo, ma non così figo, ben scritto ed equilibrato. In effetti, potrei spingermi a considerarlo uno tra i migliori film d’animazione che abbia visto negli ultimi tempi, e se non me lo avesse schiacciato in faccia Disney+, probabilmente sarebbe andato perso come lacrime nella pioggia.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Disney Club”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.