Mega Man X e la voglia di essere grandi
Ricordo nettamente il periodo tra seconda media e prima liceo in cui ragazzini e ragazzine facevano a gara a chi faceva più “le cose da grandi”. Anche tra coloro che si dilettavano nei giochi elettronici, altresì noti come videogame.
Ho impresso nella memoria i vari Pokémon per Game Boy sempre meno ostentati - folli - in favore di racconti su Metal Gear Solid e i vari Resident Evil. Gli Street Fighter e i Metal Slug amati in sala giochi abbandonati per i Tekken e i (brutti) Mortal Kombat per PS1. Il desiderio di quasi non voler ammettere a casa di un mio amico che oh, Ristar è divertente pure se controlli ‘na stella con braccia e gambe dai colori sgargianti.
Era l’epoca del passaggio dai sistemi 8 e 16 bit Nintendo al mondo Playstation, con le sue trame più seriose e un bel po’ di sangue in più che oh sì se ti fanno sentire tanto più grande. E se da giocatore Nintendo sotto sotto invidiavo quel sentimento collettivo che creava gruppo, specialmente in un’età dove vuoi sentirti tutto tranne che outsider, io non riuscivo a non amare follemente il primo Super Smash Bros, Banjo Kazooie e persino Donkey Kong 64. Ve ne ho già parlato mi sa su Outcast e non indugio oltre, altrimenti finisco per rimettere su Donkey Kong 64 solo per scoprire l’effetto che oggi mi fa.
Insomma, era quel periodo in cui i videogiochi sembravano dover perdere per forza quell’aspetto da balocco fanciullesco e restituire sensazioni più dure e crude. Una pubertà che sembrava iniziare con il rigetto totale del bambino che si è stati fino a un giorno prima.
Oggi, da trentaseienne che a volte se ne sente ottanta e altre volte tredici, un po’ sorrido pensando a quel periodo ingenuo. E mi rendo conto, nel mio scoprire e rivivere più che volentieri videogiochi del passato, che l’onda della “voglia di essere più adulti” non è stata solo una prerogativa degli e delle utenti della prima PlayStation, ma si è presentata più e più volte nei vari cambi di “generazione”.
Mega Man X è stata infatti, in epoca Super Nintendo, la risposta a quel desiderio soddisfatto nella mia epoca dai citati Metal Gear Solid e Resident Evil: "Mega Man è bello, lo abbiamo amato su NES, ce lo siamo puppato e sciorinato in ogni sua venuta... ma ora siamo grandi e ci sembra veramente troppo pupazzoso”. O questo mi piace credere abbiano pensato bambini e bambine che furono.
Mega Man X è infatti una serie parallela in cui il “Blue Bomber” è più “moderno”, incupito, calato in uno scenario di guerra perenne fatto di morte, distruzione e cattiveria. Lui è sempre super buono, per carità, ed è comunque un robot antropomorfo che zompetta in giro e spara ad altri robot che spesso e volentieri ricalcano fattezze animali... ma il tutto è un po’ più “grim”, come direbbero gli anglosassoni. Non che lo schema di gioco in sé si discosti molto dalla prima e amata serie originale: si sceglie il livello, si va avanti tra ostacoli, dirupi e tantissimi avversari, si arriva al boss, si bestemmia, forse lo si batte e gli si ruba il potere. Ripetere così fino all’eliminazione di tutti i cattivoni e all’apertura del livello finale, spesso più lungo e decisamente più stronzo di quelli comunque già tostarelli prima affrontati.
Insomma, Mega Man X è Mega Man per chi ha cominciato ad avere peli sotto le ascelle e brufoli in fronte. Veniamoci a patti. Il gioco è comunque fenomenale, ha dato vita a molti altri seguiti, alcuni ottimi (Megaman X3), altri un po’ meno riusciti (mi hanno raccontato di episodi PS2 non proprio belli) e ha ispirataoa sua volta un’altra serie: quella di Mega Man Zero, comprimario del Blue Bomber che viene introdotto proprio in Mega Man X ed è ancora più figo per l’adolescente che vuole sentirsi più grande, perché non solo spara, ma affetta anche gli avversari. Evviva!
Scemenze a parte: Mega Man X è ancora oggi molto bello. Se nelle prime battute si sorride un po’ ripensando al contesto socioculturale che ne ha decretato la nascita, presto il gioco comincia a darti bastonate sui denti (un po’ meno dei Mega Man classici, c’è da dire) con dei boss di fine livello davvero ben riusciti e un paio di cambi di ritmo dal gran gusto. Così come è ancora oggi apprezzabilissima l’anima esplorativa che X guadagna rispetto alla serie originale, grazie anche all’iconico “dash”, lo scatto in avanti che permette una mobilità prima inesprimibile: Mega Man X è infatti infarcito di potenziamenti da sbloccare, spesso tornando in livelli già completati precedentemente dopo aver sconfitto qualche boss e rubato loro così i relativi “colpi energetici”. Per i più dediti e completisti, c’è persino la possibilità di sbloccare un potenziamento che permette a X di fare un bell’Hadouken, perché a noi nerd i riferimenti tra giochi dello stesso autore fanno sempre impazzire.
Così come la colonna sonora, sempre spettacolare anche in Mega Man X. Se per gusto personale preferisco i salti mortali che i compositori Capcom hanno fatto con i limiti dell’hardware NES, creando ancora oggi brani tanto memorabili da essere davvero immortali, in Mega Man X le composizioni diventano strumentalmente più barocche ma perdono forse un po’ in eclettismo, che la serie a mio parere ha trovato poi davvero nell’ennesimo spin-off, questa volta in salsa JRPG, chiamato Mega Man Battle Network. Fantastici invece alcuni scenari e soprattutto le scelte cromatiche, in grado sia di dare molto carattere agli stage che, specialmente in alcuni frangenti, di trasmettere la voglia di creare un mondo più cupo e per certi versi “violento” di prima.
Ma insomma, come operazione per farci sentire più grim, dark e quindi adulti, poteva andare peggio. Se oggi fa sicuramente sorridere come tutto ciò all’epoca si trasmettesse con pixel comunque estremamente pupazzosi, la storia ci ha comunque restituito più Mega Man di quanto magari, restando nel look fanciullesco, ne avremmo potuti avere. Così come è estremamente ironico scoprire come poi, in tempi decisamente più recenti, il ritorno al pixel più crudo che ci sia ha creato prima aspettativa e poi entusiasmo per i due Mega Man per Wii, il bellissimo 9 e il buon 10, mentre del caro vecchio X ci dobbiamo accontentare solo di nostalgiche collection.
Forse perché alla fine, tra rughe e capelli bianchi che spuntano qua e là, sotto sotto, non abbiamo mai davvero voluto smettere di essere un po’ bambini.