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Metro 2033: una matrioska decadente

L’immenso immaginario catastrofico a cui siamo abituati da decenni ci ha ormai dato modo di osservare le innumerevoli declinazioni di quella che, per questione pratiche, chiameremo “estetica dell’apocalisse”.

Dalle prime rappresentazioni pulp di avanguardistica memoria, fino a quelle più moderne di stampo ludico, la “catastrofe” ha drasticamente segnato la nostra personale percezione dell’ambiente; che sia un’arida landa radioattiva o una sterminata campagna del Midwest battuta da legioni di morti viventi.

Per una migliore rappresentazione del catastrofico, risulta determinante il valore complessivo di decadimento che i designer riescono a imprimere nell’opera: un esempio limpidissimo potrebbe essere il rudere di una metropoli, essendo questa una chiara eredità dell’uomo.

In questo caso il decadimento è puramente materico, in quanto osserviamo il lento incedere dell’incuria ai danni delle costruzioni della civiltà umana. Tuttavia, il decadimento può essere anche strettamente psicologico, andando così a minare il già fragile tessuto sociale in cui la civiltà si ritrova dopo una catastrofe: quante volte, vedendo un film o giocando un videogioco, abbiamo visto drappelli di sopravvissuti commettere le più indicibili barbarie? Praticamente sempre.

La capacità di rappresentare queste forme di decadimento è spesso e volentieri l’ago della bilancia che determina la qualità complessiva di un’opera di tale genere.

Meta-Mosca

Pubblicato originariamente tra il 2002 e il 2005, Metro 2033 dello scrittore moscovita Dmitrij Gluchovskij, è uno dei rari casi di trasposizione libro-videogioco. Sviluppato da 4Games e in seguito pubblicato da THQ nel 2010, Metro 2033 narra le vicende di Artyom, un sopravvissuto alla massiccia guerra atomica verificatasi decenni prima l’inizio della storia. Dribblando alla Ronaldinho il plot del gioco/libro – che in questo caso poco ci interessa – andremo ad analizzare le varie strutture ambientali che il videogioco propone; con un occhio non solo all’esterno, ma soprattutto all’interno, laddove i resti della società hanno eretto una parvente traccia di civiltà: la metropolitana di Mosca.

Non occorre conoscere la dottrina NATO in fatto di guerra atomica per dedurre che almeno uno degli obiettivi fosse proprio Mosca, la capitale dell’ex colosso socialista e del suo comando militare (nonostante l’apparato sovietico fosse organizzato in comparti, proprio per protrarne l’operatività anche in caso di evento nucleare). Nell’ambientazione di Metro 2033 la capitale russa è stata tutt’altro che risparmiata, e le prime incursioni all’esterno lo dimostrano con panoramiche sconvolgenti e profondamente decadenti. Tutto appare mutato in profondità: lo stile tra l’Impero e il Modernista degli edifici più altolocati della città appare deturpato in un modo che solo l’atomo può praticare, e laddove lo stile lascia spazio al Brutalismo periferico, l’atmosfera non cambia; solo morte, amenità e ghiaccio.

Il filtro fornito dalla maschera antigas rende il tutto ancora più distopico. Resti, resti e ancora resti. La superficie moscovita, sferzata dai suoi gelidi venti, appare come una tomba carica di ricordi e sentimenti soffocati. Il caos dilagato nei momenti che precedettero la caduta delle bombe è ancora impresso nell’ambiente. Il team creativo è stato capace di rappresentare questo singolare aspetto: carcasse di veicoli con al loro interno ossa e stracci un tempo appartenuti a qualche povero sfortunato. Un manifesto della disperazione, della fuga e del delirio.

Muovendoci fra quelle strade spaccate e dentro gli edifici un tempo pullulanti di vita, non possiamo non soffermarci su quanto è accaduto. Immaginare una città che dava dimora a undici milioni di persone; tutti parte di un sistema umano che, fra le molte contraddizioni, non aveva mai smesso di funzionare. Eppure sono bastate alcune decisioni, per quanto estreme; una stringa alfanumerica e due chiavi per intaccare fatalmente tale sistema. Fu stimato che l’impiego di un dispositivo termonucleare su Mosca avrebbe causato la morte del novantanove per cento dei suoi abitanti.

Al di là della superficie, che rappresenta solo una piccola frazione dell’esperienza ludica, il fulcro estetico di Metro 2033 risiede nel sottosuolo della capitale. Come deducibile dal titolo, è la metropolitana di Mosca, la V.I. Lenin, il palinsesto cardine dell’intera storia, essendo il luogo in cui le generazioni di superstiti hanno eretto le loro città. Nel complesso queste si ramificano incarnando un concetto non dissimile dal modello antico di città-stato. Di fatto, ogni stazione della metro ha una sua giurisdizione, così come i suoi abitanti si riconoscono come parte di quella società e non di altre. Ogni stazione – va specificato che non tutte sono abitate o abitabili – possiede una sua forma-mentis politica, determinando quindi una varietà, non solo ideologica, ma anche sociale. In alcune aree contese della metro, comunisti e nazionalsocialisti si combattono senza tregua, portando nel sottosuolo quegli stessi modelli che, quasi un secolo prima, li divise durante la Seconda Guerra Mondiale.

Architettonicamente parlando, fatte alcune eccezioni di cui parleremo più avanti, le varie stazioni non rincorrono alcun fasto estetico di epoca prebellica: tutto è finalizzato alla funzionalità e alla protezione. Laddove prima c’erano banchine e binari, ora sorgono baracche in lamiera e legno di ricavo. Gli interni di queste bidonville appaiono persino peggiori: materassi nudi e luridi, qualche asse di legno e una lampada a olio nel migliore dei casi. Tutto perfettamente compreso nel decalogo del tradizionale scenario apocalittico.

Tuttavia ritengo che non si possa parlare di miseria in termini convenzionali. Le dure condizioni di vita sono fin troppo chiare, ciononostante le osserviamo prevalentemente nelle fasce di popolazione più adulte; ovvero in quegli individui che hanno dovuto adattarsi in maniera coatta al sottosuolo, dimenticando decenni di abitudini e standard. Nei più piccoli invece notiamo altro. Non è raro imbattersi in bambini correre qua e là durante il nostro viaggio tra le stazioni. Nei loro volti troviamo sì mestizia, ma anche la spensieratezza tipica di quell’età. Loro, a differenza dei genitori, non hanno e mai avranno memoria della vita di superficie con tutti i suoi agi.

I bambini in Metro 2033 rappresentano la prima generazione nell’era della devastazione; anime innocenti in un mondo decaduto. Per questa ragione, ma anche per altre più banalmente riassumibili nella sfera della sopravvivenza, trovo fuori luogo apostrofare quelle condizioni di vita come miserabili. Piuttosto chiamiamole con il loro vero nome, ossia necessarie.

Non tutto però in Metro 2033 è decadente. Il primo impatto con la Polis e il suo realismo socialista è notevole. Sita al di sotto della Leninka, la biblioteca di stato russa, la Polis è il cuore della metro. Il nervo portante dell’eredità culturale e quindi storica, scientifica, letteraria e chi più ne ha più ne metta. Super partes nei confronti di chiunque, la Polis è persino difficile da analizzare. Se al netto delle divergenze ideologiche tutte le stazioni vivono seguendo schemi analoghi, nella Polis questo non avviene. La sua struttura sociale è singolare, a tratti anacronistica. Gerarchie e caste lavoratrici si alternano per oliare il meccanismo di funzionamento di quella società. Tutti risultano utili al fine di preservarne la forma e la sostanza. Al vertice troviamo il Consiglio, nonché un’élite che funge da organo decisionale e da guida perpetua in quel mondo capovolto.

L’universo narrativo ideato da Gluchovskij è questo e molto altro. Un microcosmo umano che, parallelamente alle nuove abitudini post-apocalittiche, si distingue ancora per quelle contraddizioni e quei valori che rendono l’umanità e il suo operato unici.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Turisti per caso”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.