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Persona 4: Non fosse stato per quei mocciosi ficcanaso | Racconti dall'ospizio

Persona 4: Non fosse stato per quei mocciosi ficcanaso | Racconti dall'ospizio

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

E mettiamola, una copertina, ogni tanto!

È il 2008, Katsura Hashino ha dimostrato di poter prendere il controllo di uno dei tanti spin-off della serie Shin Megami Tensei, forse quello più “targettizzato”, data la sua focalizzazione sulla vita di un Normale Studente Giapponese (NSG, categoria riconosciuta dall’ILO), comprensiva di esami, attività di club, gite scolastiche e uscite con amici o con la(e) fidanzata(e), mixando abilmente “fomento” e “sostanza” in un discorso tutt’altro che leggero.

Con un poderoso 1-2, ha piazzato nello stomaco dei fan della serie, Persona 3 (2006) e Persona 3 FES (2007), rendendoli ben contenti di pagare due volte lo stesso gioco. Ci sono tutti i presupposti per stringere il pubblico alle corde e Hashino che fa?

Molla il colpo.

Laddove sarebbe stato facilissimo potenziare il filone “grim and gritty” del JRPG rimanendo su toni dark, quasi morbosi e apparentemente a lui confacenti, se consideriamo anche i due Digital Devil Saga (2004-2005), che avevano il “cannibalismo spirituale” come metafora portante, Hashino decide invece di deviare sulla detective story adolescenziale.

Wait! What? (da Wikipedia).

Anche l’ambientazione moderna e metropolitana di Tatsumi Port Island viene abbandonata per la autoctona quotidianità “neo-realista” della cittadina agreste di Inaba: di cui ci viene detto quasi subito che i principali punti di forza sono l’Albergo Termale Amagi e il pregiato daikon (il rapanello gigante giapponese) e che il maggiore, drammatico, cambiamento è stato l’arrivo del centro commerciale Junes, che sta progressivamente mietendo i piccoli negozi. Emozionante.

Resta il protagonista “studente trasferito”, figura semi-mitica delle storie di NSG, grazie all’aura esotica che perennemente gli viene associata (e che permette al “gruppo”, pilastro della società giapponese, di rafforzare la sua coesione accettandolo o escludendolo), ma anche qui la differenza si coglie immediatamente: rispetto all’esile e inespressivo protagonista di Persona 3, il “nuovo arrivato” è immediatamente caratterizzato da una certa prestanza e un atteggiamento che tradisce quasi subito una malcelata sfacciataggine (e tra le sue linee di dialogo non mancano mai aggressione e sarcasmo).

“… TU stai dando a ME del perdente?”

Restano anche tutte le buone intenzioni di Hashino di intavolare “un discorso”. Se in Persona 3 il tema era “Il senso della vita (e della morte)”, in Persona 4 la domanda è “Posti di fronte agli altri, sareste davvero in grado di accettare voi stessi?”.

A voler essere del tutto sinceri, il tema era già stato intavolato in Persona 3 - The Answer, in cui, dopo aver affrontato la morte (e non metaforicamente), i protagonisti si scoprivano incerti ed inesperti ad affrontare la vita e realizzavano che spesso “non sapere esattamente cosa fare” può essere più angosciante di “non avere scelta”, perché ti lascia tutto il tempo di affrontare le cose che avevi accantonato a causa dell’emergenza.

In Persona 4, tutti i comprimari hanno “qualcosa di accantonato”, che li fa soffrire e li segue come un’Ombra, qui più aderente alla teoria di Carl Gustav Jung e meno simile al blob primordiale che predava i deboli di spirito in Persona 3, al punto di rivelarsi come un vero e proprio “doppio negativo”, intenzionato ad eliminare l’individuo che lo origina. Dalla sua sconfitta, i protagonisti acquisiscono la loro Persona nella forma di, ovviamente, un Arcano dei tarocchi. Probabilmente è per questa sopraffazione già consumata che in questo capitolo non si ha bisogno del “suicidio simulato” tramite Evoker, ma sono proprio le carte a materializzarsi per venire “spezzate”, come teche di cristallo, per liberare l’essenza dei protagonisti.

Anche qui, ed è sopratutto questo che rende la serie superiore a tutti i suoi pessimi imitatori (sto parlando con voi Mind:Zero e Tokyo Mirage Sessions!), non sono solo i protagonisti a reggere sulle loro spalle il peso dell’intero tema ma questo viene rievocato in forme diverse dai Social Link, ciascuno diverso dall’altro, alcuni ridanciani (The Moon), alcuni, er… educativi (The Devil) e alcuni estremamente commoventi e quotidiani (Death).

Tutti però obbligati a confrontarsi con loro stessi e ammettere che qualche grossa bugia se la stanno raccontando, tranne, e qui ritorniamo alla (ottima) detective story che è e resta il motore della trama, l’unico che è sincero con sé stesso e sta mentendo a tutti gli altri.

E poi, MAZZATE! Ma mazzate grasse, succose, spettacolari!

Dovendo riassumere il gameplay in una frase: Persona 4 getta le fondamenta per tutto quello che Persona 5 renderà perfetto.

I modelli dei protagonisti sono più grandi e dettagliati, le evocazioni cominciano letteralmente a titaneggiare alle spalle dei protagonisti. Si perfeziona anche la strategia di aggredire le debolezze del nemico per ottenere un attacco aggiuntivo e, se possibile, il coreografico “All Out Attack”.

I labirinti diventano veri e propri ambienti, ciascuno caratterizzato dall’ossessione, dalla Shadow, che lo ha partorito e con una colonna sonora dedicata (tra tutte, la falsa soundtrack-8bit del Mitsuo’s Maze rivela il tocco di quel geniaccio di Shoji Meguro, il terzo responsabile del successo di questa serie)

Insert coin.

Anche i video animati beneficiano evidentemente di un maggiore budget e una migliore definizione, pur restando nelle sapienti mani di Shigenori Soejima, che dal capitolo precedente ha portato un tratto più tipicamente shonen-manga nella serie e che evidentemente aspetta solo che la tecnologia arrivi al livello di pulizia e definizione necessario da disegnare direttamente su una tela tridimensionale.

Infine, visto che spesso ne parlo, Persona 4 è stato uno fra i pochi giochi in cui alcuni (alcuni!) dei doppiatori inglesi sono riusciti a combattere ad armi pari con gli originali; mi riferisco sopratutto ad Amanda Winn-Lee, che riesce perfettamente nel rendere la frustrazione “cattiva” che lentamente corrode la quieta personalità di Yukiko Amagi.

Cattiva!

Il successo del videogame getta le basi per farne addirittura una serie animata, che copre la narrazione fino al Normal Ending, mentre un episodio più lungo destinato ad un breve passaggio in sala e poi ad impreziosire la raccolta in DVD/Blu-ray si farà carico del True Ending.

Poi, a seguito dell’uscita di Persona 4: The Golden su Playstation Vita (cosa si diceva a proposito dell’abilità di ATLUS nel farsi pagare due volte lo stesso gioco?) verrà prodotto uno spin-off.

La triste realtà è però che pur interpretando bene la personalità “carognetta” del protagonista, rendendo al meglio le scene umoristiche, e avendo una fra le mie opening preferite tra le serie animate…

Ah, no?

… si rivelerà un prodottino mediocre, incapace sia di dare forma al FOMENTO dei combattimenti a base di gigantesche materializzazioni dell’ego, sia di esprimere la drammaticità della scelta tra cambiare o svanire e, quello che peggio, non riuscirà a dare spessore all’accumulo di eventi inquietanti che porta quello che era iniziato come un giallo di campagna adatto alla signora Fletcher a divenire un thriller soprannaturale in cui si gioca lo stesso destino del mondo.

Però, oh, in questo caso, la mancanza di un valido riassunto (e il fatto che PS Vita si trova ancora in giro) è un motivo in più per giocare a Persona 4.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent'anni di PlayStation 2, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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