Pode è più facile da giocare che da spiegare
Ne L’attimo fuggente, quando Peter Weir - per bocca del professor Keating - fa le pulci al fittizio manuale Comprendere la poesia, riportando le radici delle istanze poetiche al suono e a una perduta dimensione tribale, a mio modo di vedere riesce ad essere piuttosto convincente. Eppure, se parliamo di roba di scrivere, non sono mai stato un grande appassionato di poesia. A dirla secca, di poesia non ci capisco proprio una mazza.
Preferisco la prosa. O, alla brutta, certi suoi aspetti lirici. Mi mette più a mio agio e mi da a bere di avere un briciolo di controllo in più. Soprattutto, non mi crea strani complessi di inferiorità.
Invece, boh, quando leggo una poesia, nove volte su dieci ho la sensazione che l’autore sia un tizio pretenzioso che sta cercando di intortarmi; o un paraculo che ride di me alle mie spalle. Sono eccessivamente prudente e prevenuto, mi rendo conto. E mi spiace un sacco per il tempo che ho fatto sprecare al mio vecchio professore di lettere del liceo - davvero appassionato del Leopardi, e davvero in gamba - ma arrivato a questo punto, non credo di poter cambiare le cose.
Di contro, se parliamo di roba di guardare, credo di saper afferrare abbastanza bene il senso del poetico, per così dire. Penso a certi film, sì, ma più di tutto all’animazione, magari astratta, quella che alcuni considerano il verso più puro possibile per il cinema.
Anche i videogiochi, per certi versi, rientrano nei confini dell’animazione, e se ne hanno voglia possono essere benissimo astratti, privi di una struttura prosaica, addirittura di una sfida, e filare comunque alla grande. Chiaro, a patto di non fraintendere l’esperienza e di prenderli per quello che non sono, ché se uno non è in vena ha tutto il diritto di annoiarsi (però, ecco, l’ideale sarebbe non rompere le balle a chi, invece, ci prende gusto).
Fuor di polemica, se penso alla suddetta categoria dei giochi puramente poetici e vagamente astratti, penso a certi lavori di thatgamecompany come Journey o flOw, oppure roba tipo Abzû o Future Unfolding. Proprio il titolo sviluppato da Spaces of Play offre forse la similitudine più adatta per iniziare - finalmente - a parlare di Pode, dal momento che le due opere mi sono parse molto vicine a livello di taglio, meccaniche e stile.
Sviluppato per Switch dallo studio con sede a Bergen (Norvegia) Henchman & Goon, Pode è un’ode alla vitalità della natura e alla creazione. Yngvill Hopen, direttrice del gioco, ha spiegato in un’intervista che il titolo in norvegese si pronuncia "pooh-duh," proprio come la parola che da quelle parti viene adoperata per indicare gli innesti fruttiferi tra piante diverse (in senso più lato, la mescolanza tra forme di vita).
E in effetti ha senso, considerato che Pode, attraverso il linguaggio dei puzzle game, costruisce un dialogo tra due esseri appartenenti a mondi diversi: la piccola roccia Bulder e Glo, una stella caduta dal cielo alla disperata ricerca della via di casa. Il giocatore è chiamato a controllare entrambe le creature, passando dall’una all’altra a proprio piacimento e secondo necessità, facendole interagire in tutti modi possibili per venire a capo dell’avventura.
Gironzolando tra le caverne/stanze del monte Fjellheim, enigma dopo enigma, Bulder e Glo scoprono i resti di una civiltà perduta, che concorreranno a riportare in vita attraverso i rispettivi poteri.
Come ho anticipato nel titolo, Pode è una di quelle robe che – almeno, a me - vengono più facili da giocare, che da spiegare. I due esserini sono dotati di poteri molto diversi tra loro. La roccia domina spigoli e minerali: tra le altre cose, ha la possibilità di innescare una serie di meccanismi, di trasportare oggetti e, per così dire, di “arare” il terreno. La stella, di contro, è una forza generatrice di vita, una sorta di dea madre; i suoi poteri operano nel campo della fertilità e le consentono di far spuntare erba, piante e fiori laddove prima c’era solo siccità.
Detti poteri non sono chiusi, anzi: la vera meccanica del gioco emerge proprio dalla collaborazione, dalla fusione delle varie abilità. Bulder e Glo possono interagire in un sacco di modi: possono tenersi per mano, lanciarsi, assorbire e lasciarsi assorbire. Il giocatore può passare da un personaggio all’altro istantaneamente e senza necessariamente spegnere i poteri già attivati (non riesco a metterla giù meglio, ma nel gioco è facile, giuro!). Così come può scegliere se dedicarsi subito allo studio dei vari puzzle ambientali o mettersi semplicemente a danzare tra la piante. In più di un’occasione, appena entrato in un nuovo ambiente, mi sono lasciato prendere dal cazzeggio. Ho riportato in vita la vegetazione, ho arato, ho fatto sbocciare fiori alternando le abilità dei due piccoletti fino a generare un posto completamente nuovo rispetto a quello di partenza. Vivo, pieno di colori, luci e suoni.
Tutta questa faccenda del portare la vita, proprio come nel già citato Future Unfonding, oltre a funzionare molto bene a livello poetico, non è necessariamente fine a sé stessa: certe azioni svelano glifi e indizi utili a risolvere i puzzle. Tuttavia, ripeto, per come me la sono vissuta io, l’indizio di turno o i vari collezionabili erano quasi dei secondi fini. Il vero gusto l’ho cavato fuori dalla contemplazione. Ecco, va anche detto che il viaggio di Pode me lo sono fatto in solitaria, imparando e apprezzando (o imparando ad apprezzare) il ragionamento bipolare.
A detta di Yngvill Hopen, la dimensione ottimale del gioco respirerebbe invece nella modalità cooperativa in locale, che in virtù di un livello di difficoltà asimmetrico, favorirebbe una fruizione estremamente inclusiva. In soldoni, metti che uno gioca serio, l’altro fa quel che può; e in caso di bisogno, cambio! Sempre la Hopen ha ammesso di aver ideato Pode nella speranza di poterci giocare al più presto assieme al figlioletto di tre anni. Io, ripeto, me lo sono sciroppato per i fatti miei, perché ormai sono un vecchio arido e senza cuore. Eppure me lo sono gustato lo stesso.
I puzzle di Pode non mi hanno mai messo davvero in difficoltà e a parte un paio di intoppi, mi è girata piuttosto pulita, senza grane o frustrazioni. Quasi sempre le idee dietro agli enigmi mi sono sembrate sufficientemente gustose da giustificare la relativa semplicità di esecuzione. Ecco, giusto ogni tanto la telecamera ha fatto le bizze, ma niente di drastico. E comunque, qualsiasi problema mi è parso compensato dal delizioso stile grafico, dai colori e dalle splendide musiche di accompagnamento composte da Austin Wintory.
Insomma, se vi siete goduti Journey e vi sentite in vena di un’esperienza contemplativa e poetica, direi che Pode fa per voi. Se invece cercate un’avventura più prosaica, o avete semplicemente voglia di confrontarvi con qualche puzzle non troppo crudele, boh, magari fateci comunque un pensiero: oltre ad essere delizioso da guardare, il titolo di Henchman & Goon è tutt’altro che sciatto a livello di design.
Ho giocato a Pode su Switch grazie a un codice gentilmente fornito dagli sviluppatori, e ho completato l’esperienza nel giro di due serate e un pomeriggio lasso al lago, per un totale di, boh, dieci ore? Diciamo dieci ore. Se volete dare la vostra chance al gioco di Henchman & Goon, lo trovate sull’eShop e su PlayStation Store.