Correre sui muri in babbucce: la trilogia di Prince of Persia | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Vi ha triggerato a sufficienza, l’immagine d’apertura?
Bene, perché ora dobbiamo parlare di PRINZOPPERZIA!
Il mio ingresso a gamba tesa in questa Cover Story che non mi appartiene richiede come sempre una lunga digressione sul mio passato, la mia infanzia, il mio essere stato una volta un giovane rampante e pieno di speranze, che ora vive confinato nelle quattro mura domestiche, circondato di videogiochi e musichette, mentre fuori infuria la morte.
Io non ce l’avevo, la Pleistescio Due. C’avevo l’Xbox che avevo comprato per giocare ad Halo, il mio primo ritorno al mondo delle console dopo un paio di generazioni passate a giocare solo su PC. E quindi, siccome arrivavo dalla master race, avevo un certo gusto per, per esempio, i giochi di ruolo, che mi teneva lontano dalle robe giapponesi e più vicino ad altre, altrettanto pattuminose (è una parola?) ma più affini alla mia sensibilità, tipo Fable o, Cthulhu ce ne scampi, Baldur’s Gate: Dark Alliance. E la Pleistescio Due non mi dava quello che volevo, anche se la occhieggiavo con malcelata invidia, con tutti i suoi Ico e i suoi Shadow of the Colossus. C’è una versione di questa storia che prosegue fino alla generazione successiva e vede Dark Souls come motore di un cambio di mentalità che mi ha portato ad abbracciare senza riserve certe cose dell’Oriente che fino a lì guardavo con sospetto, ma è anche giusto che non ve ne freghi nulla, perché saremmo qui a parlare di Prinzopperzia, della trilogia di Prinzopperzia, cui certo anch’io potevo giocare sulla mia Xbox, dove peraltro abitava fisso Ninja Gaiden, quindi col cazzo che non avevo le mie giapponesate, ma comunque, divago, come il dottor, e devo tornare a The Artist Formerly Known as Prince of Persia, e ai suoi tre magnifici giochi.
Vi racconto subito un altro aneddoto personale.
Sands of Time fu per me un’esperienza ragionevolmente solitaria, ci giocai ogni tanto con mio fratello ma in gran parte me lo godetti per conto mio, con i suoi colori pastellosi e azzurrissimi, quel combattimento che ti faceva sentire un figo anche pigiando tasti a caso, il tempo da riavvolgere, e i puzzle, soprattutto i puzzle, i giganteschi puzzle grossi come intere ali di un palazzo dove tirare leve, spostare scatoloni, pigiare interruttori e in generale manipolare l’architettura di luoghi già surreali per conto loro, trasfigurandoli e plasmandoli e trasformando gli abissi in ponti e i muri in porte. E l’acqua, c’era tantissima acqua in Sands of Time! È quello a cui ho giocato meno dei tre, probabilmente perché già al tempo tradiva una certa macchinosità nei movimenti che suonava più che altro come una promessa di miglioramento nei capitoli successivi – lo stesso effetto che fa rigiocare oggi al primo Uncharted, un gioco che, riaffrontato con il senno di poi, acquista valore perché è la promessa di grandi cose a venire, e contemporaneamente lo perde perché è meccanicamente quasi inavvicinabile.
Spiritogguerriero è il protagonista dell’aneddoto personale promesso sopra. La critica e il pubblico lo odiano perché lo vedono come il fratello goth scemo di Sands of Time, un gioco che prendeva le atmosfere favolesche del primo capitolo e le affrontava con un taglio decisamente Linkin’ Park, tutto rabbia dolore e toni di grigio. È anche il capitolo più interessante della trilogia, e per certi versi il migliore; di fatto è l’equivalente videoludico di un bottle episode televisivo, un gioco che si svolge tutto entro i limitati confini di un’isoletta punteggiata da rovine e che punta fortissimo sull’unità di luogo per definire la propria identità, al punto che molti spazi sono sfruttati più volte e da più prospettive diverse nel corso dell’avventura. Dei tre Principidipersia di quegli anni (prima, dunque, della versione colorata in cui non puoi morire) è quello che più di tutti ricorda i vecchi (odio doverlo scrivere) metroidvania, meno lineare degli altri due e più circolare.
Ecco, la prima volta che lo mettemmo su, eravamo tutti insieme a casa mia, era un’estate con i genitori in vacanza e tantissime caramelle e videogiochi comprati da Blockbuster. Il gioco della serata era appunto Spirito guerriero, che venne prontamente abbandonato un’ora dopo a causa della mia manifesta incapacità di superare il primo mobbino. Non è difficile, eh? C’è da dargli un paio di botte, fare un paio di salti e via. Non ho mai fallito così duro a un videogioco in vita mia. Perché? Lo so che vi aspettate che ora questo aneddoto abbia una qualche morale più ampia e che venga ricontestualizzato all’interno di un discorso critico. No no, il cazzo, l’ho buttato lì perché sento sempre la necessità di farlo quando parlo del secondo Prince of Persia. Davvero, non c’è nulla di speciale in quel nemico, in quell’incontro, in nulla. È solo successo e ve l’ho raccontato, siamo sui Racconti dall’Ospizio, no?
Forse, però, è un’occasione per lodare la trilogia per il suo essere estremamente guardabile. Voglio dire che da giocare sono sempre stati divertenti, al netto di un motore invecchiato non benissimo e che oggi li rende inutilmente ostili, non per design come Shadow of the Colossus ma per limitazioni e invecchiamento. Ma sono sempre stati anche grande intrattenimento visivo, coinvolgenti anche dalla prospettiva di uno spettatore; roba perfetta per i Let’s Play su YouTube, spettacolare, che non richiede particolare concentrazione, che invoglia anche, per dire, a coinvolgere un’intera chat nella discussione di un puzzle o di una sequenza di platforming. Voglio dire che erano giochi estremamente moderni, ai quali basterebbe una rapida ripulita per venire ri-amatissimi dalle Nuove Generazioni.
Mi rendo conto che il discorso sta un po’ vagando e non sono entrato troppo nello specifico dei singoli capitoli, e in particolare non ho detto nulla sul terzo, I due troni, che mi piace introdurre così:
Che dire, dei Due troni, che non sia già stato spiegato da Frank Lo Rutto? Era più grosso, più spettacolare, con una protagonista femminile magnifica, un sacco di botte, sequenze molto cinematografiche, la possibilità di trasformarsi nel dark cattivon prins, insomma era quello che un tempo erano i bei sequel: ancora un po’ della stessa roba, fatta incrementalmente meglio.
Tempi più semplici, nei quali non esistevano i giochi come servizi e in una quindicina di ore ti eri consumato quei 60€ che avevi speso un paio di giorni prima. Tempi con le sabbie, riavvolgibili, che non torneranno più, a meno che qualcuno non si svegli e decida di riservare al signor Di Persia lo stesso trattamento applicato a Lara Croft (magari imparando dai suoi numerosi errori, già che ci siamo). Il mondo ha sempre bisogno di gente in babbucce che corre sui muri.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent'anni di PlayStation 2, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.