Prince of Persia, all’inizio, mi faceva schifo | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Per quanto mi riguarda, i ricordi di Prince of Persia si perdono davvero nelle sabbie del tempo. Di sicuro, non credo di averci mai giocato nell’incarnazione originale per Apple II, né ai tempi dell’uscita, nel 1989, né tantomeno in seguito. La prima volta che ci ho messo mano è stata attorno al 1990, sul PC MS-DOS di una cugina mia coetanea, ennesima tra i miei parenti ad aver chiesto a Gesù Bambino un Commodore 64 «per fare i compiti e giocare, ti prego mio buon Gesù», ed essersi ritrovata la mattina di Natale davanti a un coso dallo schermo monocromatico, buono solo per aggiornare l’inventario della ditta, «porco &%%&%!».
Ma ormai era fatta. In quegli anni lì, toccava abbozzare, e mia cugina abbozzò, cercando di farsi andare giù tutta una serie di conversioni assolutamente irragionevoli, che non condividevano nulla con le controparti da bar e venivano ulteriormente peggiorate dalla mancanza di joystick.
Giocarci, per me che provenivo dalla civiltà avanzata del C64 e del NES, era un pacco, così, quando si andava in visita dagli zii, preferivo spararmi qualche videocassetta delle Duck Tales, o un film a caso di John Hughes scelto dalla cugina più grande e post-panozza. Del computer di sopra, in genere, fotteva sega, almeno fino all’ora di USA Today. Lì, dopo che l’Auletta e il Gallarini avevano picchiato su le figate dell’Amiga, la voglia di videogiochi montava fino a diventare irresistibile, talmente irresistibile da sdoganare certa roba brutta monocromatica, che sicuramente non era buona per lavorare, OK, ma nemmeno per giocare.
Un pomeriggio, però, mia cugina se ne saltò fuori con questo Prince of Persia, giurando che «non è la solita cosa, è strano, e viene via bene anche da tastiera». Rimango scettico fino a quando non parte la musichetta arabeggiante con l’introduzione, seguita dal gioco. Al netto del monocromo, la qualità delle animazioni è fuori scala. «È un cartone animato!».
All’epoca, non sapevo un bel niente di rotoscope, non mi pare avessi mai avuto a che fare con Karateka e senz’altro ignoravo che, mentre io stavo a disegnare cazzetti sui banchi di scuola, il poco più che ventenne Jordan Mechner si era già trasferito da New York a San Francisco con la mezza idea di fare videogiochi, e quell’altra metà di diventare regista.
Altra cosa che non avrei potuto immaginare: il tizio tutto impegnato a tirare di scherma e saltare di qua e di là era la riduzione in pixel di David, il fratello di Jordan, prestato alla bisogna senza sapere che, in quel modo, sarebbe passato alla storia come quello giovane e scattante.
Io pure avevo - ho - un fratello, ma anziché servirmene per celebrare l’ingegno, preferivo inventarmi modi sempre diversi per flagellarlo, prima di prendere a ignorarlo completamente, nei miei quattro anni di superiorità che, quando sei adolescente, paiono quaranta.
Ad ogni modo, l’introduzione mi aveva intrigato di brutto, con quell’atmosfera in stile Le mille e una notte e il perfido sultano Jaffar pronto e varcare, con una “f” di differenza rispetto all’opera di riferimento, il pantheon dei supercattivi pop due anni prima che saltasse fuori Aladdin. Tra l’altro, quando avevo urlato al cartone animato, non pensavo alla Disney, ma a un film italiano del 1949, La Rosa di Bagdad, in cui, curiosamente, l’antagonista si chiamava Jamar, e che conoscevo perché il mio vecchio prof. di educazione fisica era figlio dell’illustratore Libico Maraja e aveva allestito un piccolo museo dedicato al padre, con cell e disegni tratti dal film animato che facevano un sacco Prince of Persia.
Bando alle divagazioni: tornando a quel pomeriggio monocromatico, una volta assorbita l’esaltazione per le animazioni e la verve narrativa, la mia seconda reazione di fronte a quel capolavoro indiscusso e madre esemplare della storia dei videogiochi fu: «Ma che è, ‘sta merda? Non si riesce a giocare!»
Evidentemente, mia cugina, abituata a rincorrere i giochi sul suo PC (di merda, monocromatico), non aveva avuto problemi a digerire il taglio impostato da Mechner e a cavalcare i tempi di reazione del protagonista. Tempi che, ahimè, erano quanto più distanti possibile dal mio modo di sentire.
Abituato agli scatti di Mario e compagnia, Prince of Persia era come passare dai videoclip a Kiarostami. Trovavo inaudita l’evenienza di impostare un salto, una scartata o una schivata con tanto anticipo; di essere io a inseguire le animazioni del personaggio quando, nel Regno dei Funghi, i miei pensieri andavano di pari passo con quelli del baffo. Era una sensazione frustrante, quasi quanto dover buttare già una Fanta a piccoli sorsi durante un attacco di sete.
Mollai il gioco e non lo ripresi in mano mai più, e per “mai più” intendo fino al 1992, quando, nel mezzo di una gita scolastica, qualcuno fece scivolare nel mio Game Boy la conversione curata da Virgin. Sarà che ero in una situazione di astinenza, e che dall’ultimo giro nelle celle di Jafar erano passati quasi due anni. Sarà, soprattutto, che nel frattempo ero andato ai pazzi per Another World, che condivideva col gioco di Mechner un sacco di cose ma era riuscito a vendermele meglio. Sarà quel che sarà, finii per sbranare Prince of Persia in quella versione portatile, dopodiché lo recuperai su Amiga e, nel corso degli anni, su un sacco di altri formati, ammirandone ogni volta di più l’equilibrio miracoloso tra la fisica del personaggio e il level design. Tra tecnica, estetica e narrazione. Un equilibrio che ha finito con l’influenzare molte delle produzioni a venire, a cominciare da quelle di un certo designer giapponese in fissa con l’arte e i computer da gaijin.
Produzioni che oggi sono diventate tra le mie preferite in assoluto e che esistono soltanto perché qualcuno più sensato di me non ha fatto figure da scemo davanti ai tempi di risposta di Prince of Persia, cara grazia.