Quantum Break: vulgar display of Remedy
Ciao, sono Luca ed è sono quattro settimane che non gioco a un gioco Remedy…
Lo ammetto: sono un Remedy fanboy. Non c’è loro gioco a cui non abbia giocato, alcuni più volte (ciao Max Payne 1 e 2), superando anche le mie paure (Alan Wake) o la difficoltà ad entrare in sintonia con l’avatar proposto (Control).
Potevo quindi astenermi dal parlare di Quantum Break nel momento in cui con la Cover Story si intitola “Time Paradox!”?
Nella già abbastanza folle produzione Remedy, Quantum Break è un’anomalia tale da essere apparentemente “fuori canone” per la sua storia produttiva.
A farla breve, si parla di un “lavoro su commissione” pensato da Remedy ma voluto da Microsoft come proprietà intellettuale innovativa per lanciare XBox One e il gaming “a piattaforme unificate” e fin dall’inizio concepito come una prova di forza o, appunto, un “Vulgar display of Power”.
Concepito E realizzato. Microsoft vuole una narrazione importante ed è disposta a pagare per averla, Remedy è più che disposta a dargliela: Quantum Break non avrà solo una resa grafica avanzata, effetti speciali, ambientali e di illuminazione funzionali ad un gameplay a base di poteri di distorsione temporale, un cast di ottimi attori e caratteristi a dare volto e voce ai personaggi.
Avrà un intera, dannata, SERIE TV mescolata con le scene di gioco.
So che parlare di un videogame parlando di quanto sono stati pensati e realizzati bene aspetti extra-ludici possa sembrare inappropriato persino a chi non è necessariamente un purista del medium, ma Quantum Break è probabilmente uno dei pochi casi (mi dicono che il recente e glorificato Immortality ne sia forse l’attuale capofila) in cui è impossibile scindere questa componente “ex-game” dal gioco. Sicuramente è l’unico gioco action che mi venga in mente per cui è impossibile farlo.
Senza gli intermezzi in cui Shawn Ashmore fa del suo meglio per rendere l’espressione corrucciata e tesa dell’hidden badass Jack Joyce, un personaggio che nella “serie A” sarebbe stato interpretato da Jeremy Renner, l’ottimo Aidan Gillen trasmette la sofferenza dell’ “Alfred Nobel della manipolazione temporale” Paul Serene combattuto tra il dovere di salvare e la necessità di sopprimere e il titanico Lance Reddick (sigh!!) trasmette tutta l’inquietante sicumera di chi come Martin Hatch SA cosa sta succedendo e come farlo succedere, avremmo sicuramente comunque un grandissimo gioco, ma non avremmo le stesse emozioni.
Non riesco davvero a condividere le critiche a questa scelta, né per quanto riguarda il livello qualitativo - è vero che il livello degli attori è diseguale variando da “maestro” a “statuetta segnatempo”, ma stiamo parlando di una produzione il cui budget per quanto enorme era limitato - né per l’opportunità di farlo.
La storia di un mondo in cui il tempo “si sta rompendo” e in cui persone buone devono compiere, o subire, scelte orribili perché letteralmente naufragate su sponde diverse e separate dall’impossibilità di comunicare quello che sanno e/o che hanno visto (il personaggio interpretato dalla non eccelsa Courtney Hope ricorda in maniera inquietante Suzuha Amane di Steins;Gate ), con professionisti rosi dal dubbio e un unico personaggio inquietantemente tranquillo, non credo proprio avrebbe funzionato così bene senza volti umani su cui dipingere gli effetti delle scelte.
Conseguentemente, ogni pallottola sparata, ogni attivazione di un nuovo potere, ogni frustrante ripetizione dello stesso combattimento maledettamente difficile (fortunatamente pochi, ma più della media dei giochi moderni “non souls”) sarebbe stata meno “motivata”.
E questo sarebbe stato “male”, visto l’impegno che Remedy mette nel dare in mano al giocatore un gameplay che permetta di “sentirsi speciali”, proseguendo la strada tracciata da Max Payne, proseguita da Alan Wake e che terminerà naturalmente in Control.
In Quantum Break non solo il gunplay è soddisfacente a quei livelli a cui ci si era abituati da tempo, ma la gestione dei poteri temporali non è solo “effetto speciale” ma anche funzionale ad avanzare nel gioco imponendo di padroneggiarli e saperli alternare ad un livello adeguato. In questo, forse, Quantum Break è persino superiore al successivo Control, in cui, come notato da giopep in un recente podcast, pur essendo tutti i poteri assolutamente coreografici e fomentanti, l’impressione è che pompando la telecinesi si possa sostanzialmente battere il gioco a forza di scatafasciare mobili (e immobili) sulla testa degli avversari.
Ora che Alan Wake ha avuto il tanto sospirato sequel, alcuni si chiedono se le affermazioni categoriche, anche legittime, sulla non necessità di un sequel di Quantum Break verranno riconsiderate. Certo, il gioco è sempre stato molto a latere del “RemedyVerse”, al punto di contenere marginali citazioni agli altri giochi ma non avere quasi contro-citazioni dirette se non qualche “outside joke”.
Da parte mia, sospendo il giudizio: il finale lasciava aperta la porta ad un sequel ma non lo incoraggiava particolarmente e se c’è una produzione che non li ha mai sbagliati è Remedy.
Se il tempo non si rompe, lo scopriremo.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a viaggi nel tempo e paradossi temporali, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.