Control e il mio problema con i giochi belli
Diciamo subito le cose importanti: Control, di quei finlandesi matti di Remedy Entertainment, è una figata.
È bellobellobello in modo assurdo, è forse stato il primo giochino a metterti “i superpoteri nelle mani” in maniera figa e credibile, ha una storia pazzesca che prende X-Files, MIB, il vostro cugino che va ad avvistare alieni sul Musinè, spezia con quel tanto di Lovecraft che serve a non stuccare e serve caldo.
È anche il gioco che io ho iniziato due volte (in realtà: tre, ma la terza è stata colpa di un errore da dilettanti della programmazione dei salvataggi che io, amici di Remedy, davvero non me lo spiego) e non sono riuscito a finire.
Quando faccio così mi prenderei a ceffoni!
Andiamo con ordine, che con la pletora di giochi che ormai escono ogni anno qualcuno si potrebbe essere perso di cosa stiamo parlando.
Control vi mette nei panni di Jessie Faden, una apparentemente normale trentenne alla ricerca del fratello rapito da agenti del Federal Bureau of Control, la classica “agenzia governativa di cui nessuno sa niente”. Dopo anni di ricerche, in una notte di pioggia Jessie entra nella sede centrale della FBC come niente fosse, e la trova deserta.
O, meglio, dopo aver girato un po’ trova l’inquietante uomo delle pulizie “svedese” (in realtà: finlandese), Ahti, che nel suo inglese stentato la scambia per il “rinforzo” che da anni chiede alla Direzione e la indirizza agli uffici amministrativi dove Jessie trova l’unica altra persona: il Direttore Zacharias Trench. Morto stecchito dopo essersi sparato alla testa con una strana pistola che sembra viva.
Jessie prende la pistola, se la punta alla testa, preme il grilletto ed è la nuova Direttrice del Federal Bureau of Control, l’agenzia incaricata di proteggere gli USA, ed il mondo (ovviamente: non ci fossero loro, povero mondo come farebbe?), da tutto quello che non è ESATTAMENTE parte della nostra realtà. Agenzia attualmente sotto attacco da parte di un misterioso HISS, una entità/coscienza collettiva/risonanza/colore rosso che corrompe le persone e la stessa Oldest House, la sede polidimensionale dell’FBC.
Corrompe tutte le persone tranne coloro che indossano un dispositivo di protezione inventato dal geniale Capo della Ricerca & Sviluppo, Casper Darling, Ahti e Jessie stessa, portatrice di uno/a strano/a alleato/a/entità/risonanza/spirale luminosa nella sua testa dal giorno in cui suo fratello scomparve.
E questo è solo il prologo.
Siamo, come dicevo prima, a X-Files+MIB+The Twilight Zone, con tutto quel dettaglio e quell’amore per la narrativa videoludica che caratterizza gli amici di Remedy, i personaggi collaterali caratterizzati come fossimo in una serie televisiva, messi in scena sia in presenza sia tramite registrazioni della loro voce o documentari filmati su strumenti degli anni ‘70-’80 perché, spiegazione deliziosa che coniuga esotismo ed esoterismo, The Oldest House “rifiuta” qualsiasi apparecchio tecnologico troppo moderno, quasi non si fidasse di ciò che non conosce o non ha analizzato a sufficienza. E poi ancora le circolari assurde censurate, gli oggetti di potere che vanno dalla pistola mutaforma a cassaforti indistruttibili dentro cui sembra ci sia “qualcosa”, floppy disk psicocinetici, televisori levitanti e misteriose paperelle di gomma. The Oldest House è pensata e rappresentata come un intero mondo architettonicamente coerente collegato ad altri mondi impossibili, tra cui l’Oceanview Hotel - l’albergo che rappresenta tutti gli alberghetti in cui magari avete dormito ma che confondete con altri - , una miniera DENTRO il palazzo stesso e “altri posti” che bisogna stare anche attenti a non cercare troppo.
Tutto questo ben di dio narrativo, raccontato come dicevo alla perfezione ed innestato su un gameplay che permette a Jessie sia di usare un’arma che è ogni arma da fuoco insieme, sia di scatenare poteri psicocinetici sui nemici, io non sono riuscito a completarlo. Quando faccio così mi prenderei a ceffoni.
Certo, qualche attenuante ce l’ho.
Da una parte non sono riuscito ad entrare in sintonia con la protagonista: spiace dirlo ma Courtney Hope, l’attrice che dà le fattezze a Jessie già vista nello spettacolare Quantum Break sempre di Remedy, è un buco di carisma.
Adatta al massimo a fare la pubblicità dei Denim, che la inguainano perfettamente, la sua laconicità e la sua monoespressione stonano in maniera devastante se messe a confronto di comprimari come Ahti, che “trasuda inquietanza” già solo quando si gira a guardarti, il Dottor Darling che vediamo in decine e decine di registrazioni ed è clamorosamente interpretato da un sottovalutatissimo Matthew Porretta, capace di restituirti un personaggio stereotipo e complesso con spezzoni di recitato, o la rocciosa capa delle Operazioni (sporche) Ellen Marshal, una donna di colore di mezza età che tiene in mano un mitra obsoleto con la stessa cazzimma con cui terrebbe in mano un mattarello in cucina.
Certo, si potrebbe ritenere che una protagonista che ha convissuto con un essere “altrodimensionale” per decenni abbia una tolleranza abbastanza alta alle stranezze ma, santo cielo, Jessie Faden non cambia espressione MAI! Non cambia tono di voce, MAI! Qui non siamo alla “recitazione contenuta”, siamo alla non-recitazione.
Non aiuta poi che alla mancanza di espressione si unisca la mancanza di caratterizzazione, un evento anomalo per Remedy.
Tutti i protagonisti di Remedy, da Max Payne a Jack Joyce, passando per Alan Wake, avevano una backstory che si esprimeva nel loro modo di agire e di parlare. Qui non abbiamo nulla del genere: come ho detto abbiamo la ragazza di campagna che veste benissimo in Denim, che non si sa che mestiere abbia fatto ma che con una pistola in mano, senza particolari spiegazioni, se la cava benissimo (e, no, non mi basta pensare “è americana” per giustificare la cosa).
Personalmente, avrei tantissimo gradito un personaggio che mi fornisse qualche spunto per “conoscerlo”: già solo se avessimo avuto la brizzolata Ellen Marshal, con il suo piglio da veterana delle guerre masai, mi sarei esaltato di più. Lasciatemi poi sognare Control interpretato da una Jamie Lee Curtis versione Everything, Everywhere, All at Once che magari invece del fratello è venuta a riprendersi suo figlio. Una impiegata del fisco prossima alla pensione che spara e spacca i muri per poi sfondarteli sulla testa… dio mio!
Anche quando valuto i giochi per come avrei voluto che fossero e non per come sono, mi prenderei a ceffoni.
L’altro problema è che in Control ho capito per la prima volta in maniera chiara il problema della “dissonanza ludonarrativa” già citato qualche volta nelle nostre pagine e nei nostri podcast. Sapete, no? Quel fatto che ti viene dato un contesto, ti viene dato un protagonista, e poi il gameplay fa di tutto per smentire il contesto o il protagonista (o, peggio, entrambi). Hai il personaggio buono e sensibile, che frigna che non vuole sparare, che non ne può più e poi nel corso del gioco accumuli cadaveri manco fossi Charlie Sheen in Hot Shots 2.
In Control suppostamente tu saresti all’interno di una Agenzia Lavori Occulti che si trova ad affrontare crisi che rischiano di lacerare il Tessuto Stesso Della Realtà Come La Conosciamo nel massimo riserbo e con burocratica efficienza.
E quello che fai per la maggior parte del tempo è splatterare ex-impiegati dell’Agenzia, con diverse mansioni e diverso armamento, lungo le pareti della stessa utilizzando alternativamente la tua arma concettuale oppure i tuoi poteri psicocinetici.
Superato abbondantemente il centinaio di onesti lavoratori massacrati (a cui dovrebbero aggiungersi tutti quelli che trovi già morti) ho cominciato oziosamente a chiedermi come le Public Relations sarebbero riuscite a giustificare la scomparsa di così tanta gente il giorno dopo e che casino sarebbe stato per l’Ufficio Personale trovare in fretta sufficienti rimpiazzi per rimettere in piedi i dipartimenti dopo quello che Simon Arish, il simpatico Capo della Sicurezza del Settore Manutenzione, definisce “Un’altra giornata al Federal Bureau of Control”.
Capiamoci, non è il “valore assoluto” ad avermi rotto il gioco. È il contesto.
Max Payne è un Hard Boiled post-moderno in stile Bruce Willis in cui le torme di malavitosi tutti uguali da falciare sono la tappezzeria stessa del genere; in Quantum Break i tuoi avversari fanno parte di un esercito privato addestrato in vista della fine del mondo: “il giorno dopo” per loro e per te è un concetto privo di senso; Alan Wake, d’altro canto, è un action in cui affronti due, tre, al massimo quattro avversari per volta, e dopo lunghe camminate, proprio perché il genere gli impone che sia più il contesto a farti pompare adrenalina piuttosto che il body count.
Ecco, Control avrebbe dovuto essere più simile ad Alan Wake e meno a Quantum Break: meno burattini tutti uguali su cui sparare e più enigmi, orrori indescrivibili e ciclopiche bizzarrie da smontare magari in più incontri. Più ambienti difficili da razionalizzare e sensazione che ogni porta che apri sarà fonte di dispiaceri e meno sacchi neri antropomorfi stile Suicide Squad (quellammerda del primo).
Purtroppo, quando mi si è “rotto il giocattolo”, ogni scontro a fuoco è diventato una noia mortale (mai avrei creduto di poter dire una cosa del genere di un gioco Remedy), le cosidette “missioni della direzione” una rottura accolta con lo stesso entusiasmo con cui apro le mail il lunedì, ed il girare tra gli uffici trovando l’occasionale documento/registrazione/proiettore che mi “rimpolpava” la storia e/o mi guidava nel prossimo ambiente delirante, l’unica, ma non bastevole, consolazione.
Loro e, ovviamente, ogni dialogo con/su Ahti.
E, quindi, niente: mi trovo ad ammettere che non sono riuscito a farmi piacere un gioco bellissimo, fatto benissimo e con idee di soggetto, sceneggiature e scenografia (penso che qui in Outcast ci sia qualcuno che potrebbe probabilmente parlare per ore delle diverse citazioni architettoniche) fuori di testa.
Quando faccio così, mi prenderei a ceffoni.