Quella volta che mi buttarono fuori dal baretto
Il baretto di quartiere che ospitava i cabinati dei videogiochi era un punto fermo fondamentale della mia vita da videogiocatore bambino degli anni Ottanta. Le sale giochi erano luoghi lontani e misteriosi, che frequentai sicuramente di più da ragazzo nel decennio successivo e, toh, magari in situazioni speciali, quando ne capitava una in zona inserita in un parco di divertimenti, o ce n’era una in località di vacanza, o a una fiera. No, aspetta, sto rischiando di partire per la tangente e mettermi a raccontare aneddoti relativi ma non andiamo subito fuori tema. Torniamo al punto: il baretto.
Dicevo. Vicino a casa mia c’erano due bar in cui si poteva andare a sperperare soldi in videogiochi. C’era quello al numero 5 via delle Ande, veramente a due passi da casa (abitavo al numero 1), che Google mi dice essere oggi permanentemente chiuso, e c’era quello un po’ più lontano, nella piazza là in fondo, al numero 16. Stiamo parlando di, mi segnala sempre Google, 220 metri di distanza, non molto, ma ero un bambino, camminare fino là in fondo costituiva comunque un investimento maggiore di tempo, fatica e bulletti e rompicoglioni da schivare ossessivamente come se fossi il protagonista di un survival horror. Ad ogni modo, ricordo chiaramente che al bar sotto casa c’erano sempre due cabinati, con giochi più o meno recenti. Entravi, a sinistra avevi il bancone del bar e la cassa, a destra una specie di corridoio che portava alla zona sul retro coi tavolini. E nel corridoio, sulla destra, c’erano i videogiochi. Per esempio, ho un ricordo chiaro del periodo in cui ospitava Bubble Bobble e di aver passato parecchio tempo lì dentro appiccicato a Shinobi, ma di giochi ce ne sono passati tantissimi e la quantità di tempo che ho trascorso lì dentro, rimbalzando fra la cassa dove mi facevo cambiare una banconota in monete e il cabinato per spenderle e giocare come un matto, è fuori misura. Certo, non ci ho speso come su Ultima Online, ma insomma, proporzionalmente alle risorse disponibili da ampiamente minorenne, la spesa fu ingente.
E soprattutto, lì ero di casa. Dovessi dire come si chiamava il barista non lo saprei, ma ricordo chiaramente che era un volto noto, familiare, e mi conosceva, sapeva chi fossi. Che pare una cosa da poco, ma contribuiva a rendere quel bar un posto tranquillo, amichevole, in cui andavo facendo due passi, percorrendo per altro una via che partiva dal mio palazzo e aveva su un lato la mia scuola elementare, sull’altro una fila di negozi comunque frequentati spesso per comprare questa o quella cosa. E in fondo, appunto, il baretto. Era un contesto che faceva parte del mio villaggio e penso che mia madre in primis fosse tranquillissima a sapermi passeggiare lì davanti per andare là.
Ora, non è che l’altro bar, quello in fondo alla via, costituisse una situazione radicalmente diversa. Il quartiere sempre quello era, la gente pure. Però, per me, era quasi come se fosse un altro quartiere. Era proprio un microcosmo diverso. Bisognava percorrere tutta una via lunga (per i miei occhi di bambino), composta solo di palazzi in cui abitavano sconosciuti. Si passava, va detto, di fianco ai giardinetti che tutto sommato frequentavo abbastanza per andare a giocare, ma insomma, era quasi una piccola avventura. A volte ci andavo perfino in bicicletta! E in fondo alla via, si trovava questa piazza con al centro un edificio da un piano che ospitava una fila di negozi e attività commerciali spalmata tutta attorno (e che adesso, se Google non mente, ospita un grosso ristorante). Solo che quei negozi non li frequentavo quasi per nulla. Ogni tanto, forse, è capitato che mia madre mi portasse a tagliare i capelli dal parrucchiere. Anzi, ricordo chiaramente una volta in cui avevo i pidocchi e mi madre mi portò lì tentando disperatamente di convincere il parrucchiere a lavarmi i capelli con lo shampoo apposito e poi farmi un taglio. Non andò bene.
Comunque, nell’angolo più in fondo di quella piazza, c’era una zona verde che si sviluppava attorno a un bar. Era un bar un po’ più grosso e ambizioso del “mio”, con i tavolini fuori e una zona ristorante sul retro. Zona ristorante in cui non credo di essere mai entrato in vita mia. E quel bar ospitava due o tre cabinati subito lì, all’ingresso, proprio di fianco alla porta. Quindi tu potevi entrare e ignorare tutto e tutti, andare dritto ai videogiochi. Ora, questo luogo, per me, era meno piacevole da raggiungere. Andava benissimo, eh, non è che mi sentissi in pericolo o che, però era meno familiare, più lontano, pieno di gente sconosciuta, mi sentivo meno a casa. Ma ci andavo, oh se ci andavo. Perché la mia impressione (magari sbagliata, ma tant’è) era che mettessero più impegno su quello che per me contava: i videogiochi.
Lì c’erano spesso le novità, le robe affascinanti e mai viste prima, magari sbirciate giusto sulle riviste, mentre in quello che consideravo il bar di via delle Ande magari si accontentavano dei recuperi. Erano retro! Anni dopo, la situazione sarebbe cambiata e per giocare alle ultime novità sarei andato regolarmente in altri luoghi raggiungibili con la metropolitana e che da bambino non frequentavo con regolarità (il bar a Pagano aveva sempre tutte le cose più nuove e belle!). Ma da bambino, chiaramente, ero più circoscritto al quartiere. E quindi, quello sforzo in più per giocare ad altro lo facevo per raggiungere la piazzetta. Fra i tanti giochi a cui mi sono dedicato in quel luogo, per esempio, ricordo chiaramente Ghouls ‘n Ghosts, su cui ho trascorso pomeriggi interi, e ricordo con amore il momento in cui riuscii a raggiungere il finale “vero”.
Ma andiamo al dunque: ricordo distintamente che a un certo punto in quel bar si manifestò Double Dragon. Ricordo la fascinazione per quel gioco, le orde di bambini accatastati uno sull’altro per giocare o anche solo per guardarlo. Ricordo la fissazione per l’uso della gomitata che nella nostra testa rendeva tutto più facile. Ricordo che il nemico tutto colorato di verde lo chiamavamo “il folletto”. E ricordo un pomeriggio invernale, in cui eravamo lì, in tanti, al bar, tutti imbacuccati e ammassati attorno a Double Dragon. Era il secondo o terzo gioco arrivando dall’ingresso e stavamo tutti lì. Non so neanche chi stesse giocando, io facevo parte del pubblico. Almeno credo. Ed eravamo alle fasi finali, che non avevo ancora mai visto. Billy e Jimmy avanzano lungo un corridoio e all’improvviso il muro viene fracassato dai due tizi di colore enormi che, lo scopro ora curiosando su Internet, si chiamano Jick Abobo, evidentemente parenti dell’Abobo incontrato prima nel gioco.
Ecco, i tizi grossi che entrano sfondando il muro non erano una novità assoluta, c’è proprio Abobo che fa il suo esordio in quel modo nel primo livello, ma in quel momento, bastò vedere la doppia entrata per restare a bocca aperta. Sarà anche stata la situazione, tutti lì assieme gasatissimi, io e una banda di sconosciuti, qualche faccia nota ma forse nessuno dei miei amici, assieme, uniti dal trasporto per questo gioco pazzesco che si stava sviluppando davanti a noi. La tensione data dal sapere di essere vicini alla fine, anche se non sapevamo che lo scontro finale era letteralmente dietro l’angolo, e SBRAM, escono questi due bestioni, scatenando tripudio e urla da parte di tutto il gruppetto di bambini.
Bellissimo.
Ecco, il problema è che il barista ne aveva le palle piene. Evidentemente stavamo facendo troppo casino da troppo tempo, non lo so, fatto sta che in quel momento lì, di fronte a quel momento memorabile lì, tirai un “[animale] [sex worker]”, espressione che oggi cerco di evitare perché mi hanno fatto riflettere sul fatto che certi tipi di imprecazioni riferiti alle donne e a certe categorie di lavoratrici sono figlie del patriarcato e insomma a ‘sto punto preferisco bestemmiare, però comunque entrambe le cose evito di metterle qua per iscritto ma ci tenevo a mettere quel virgolettato strano per questioni di documentazione storica.
Dicevo.
Sparo quell’urlo e IMMEDIATAMENTE sento una mano che mi afferra in testa, sul cappellino di lana che non avevo mai tolto, e mi trascina fuori mentre una voce sbiascica qualcosa sul fatto che va bene il casino ma pure questo linguaggio no e basta andatevene. Ammazza, oh, che reazione, per un bambino degli anni Ottanta che tira una parolaccia.
Che poi, avendo parlato di Double Dragon, mi sentirei in difetto se non menzionassi l’altro momento memorabile davvero incredibile di quel gioco. Quando stai giocando in cooperativa, arrivate alla fine, sconfiggete il boss e quei due pirla dei fratelli Lee decidono di menarsi fra di loro per decidere chi si porta via la ragazza, che ovviamente è solo felice di sparare cuoricini in fronte a quello che mena più forte. Ora, al di là del livello fuori scala di mascolinità tossica della cosa, ché, insomma, stiamo comunque parlando di una roba giapponese degli anni Ottanta, cosa possiamo farci, da giovine giuocatore, quel momento lì, la prima volta, completamente inatteso, era una roba pazzesca. Un ribaltamento improvviso divertentissimo, che provocava emozioni, sorpresa, tensione, mazzate e rosicate.
Bellissimo.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai "Momenti memorabili", che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.