Racconti dall'ospizio #170: Red Dead Redemption
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Prima di cominciare, mi preme esplicitare un concetto importantissimo nonché mettere le mani avanti per evitare di venire crocifisso e dato in pasto ai coyote: Red Dead Redemption è un gioco bellissimo, un’esperienza ancora più bella, probabilmente un capolavoro, sicuramente un pezzo irrinunciabile di storia del videogioco e ancora oggi a modo suo il miglior lavoro della Rockstar di GTA per lo stesso motivo per cui Bloodborne è il miglior lavoro della From Software di Dark Souls: parte da un modello codificato e, semplicemente spostandosi un po’ di lato, lo migliora e lo trasforma in qualcosa d’altro, un pezzo d’arte che si allontana dall’ombra dei suoi genitori e che vive e cammina sulle sue gambe, superando in qualità anche il suo stesso DNA.
Ciò detto: Red Dead Redemption, uscito nel 2012, del quale sta per uscire un sequel, il GTA nel deserto di Rockstar, quel gioco con John Marston e i puma incazzati immortali, era quando uscì e forse è ancora oggi un’immensa rottura di coglioni.
È una cosa bella! Quantomeno giusta: dove gli allora quattro (ora cinque) (più spin-off) GTA erano una macedonia di influenze che spaziavano da Spike Lee a The Wire ai Soprano a Gangs of New York a una serie di film di mafiosi a caso, Red Dead Redemption nasce con la ferma intenzione di metterci in mano il cinema western, con i suoi spazi infiniti, i suoi silenzi, la natura crudele e silenziosa che ci guarda dall’alto di un tramonto rosso sangue, e anche con i suoi villaggi e i coloni e le prostitute e i tizi che vendono olio di serpente e le pistole, i fucili, i duelli all’alba. Un western, appunto, il cui approccio al vecchio West è più dalle parti dell’immancabile Gli spietati che di John Ford (l’arrivo del treno come metafora della civiltà che spazza via i lati più selvaggi e veraci della colonizzazione del continente americano, tipo il genocidio dei nativi e Clint Eastwood), ma comunque un western, quindi una storia fatta di vuoti che vengono sporadicamente riempiti da esplosioni di violenza, un trionfo di campi lunghi con rare incursioni nell’intimità del ficcare una pallottola in pancia a un tipo o dieci. Non un circo di emozioni come le metropoli di GTA, dove ogni angolo nasconde una cazzata o quantomeno una nuova macchina da rubare, ma un gioco omeopatico, un immenso bicchiere d’acqua (senza memoria) nel quale nuotano solitarie le sparute particelle di una narrazione, da inseguire, disseppellire, da coccolarsi finché durano, prima che vengano inghiottite di nuovo dal vuoto cosmico e sublime che è la frontiera americana creata da Rockstar.
È il 2012, quando esce Red Dead Redemption, lo stesso anno in cui Dear Esther torna in auge in versione rimasterizzata. Dear Esther, ve lo ricordate?, era un gioco nel quale non si giocava granché e che quindi faceva incazzare i Videogiocatori Veri™ – un walking simulator, come avevano cominciato a chiamarli i detrattori, un’esperienza narrativa interattiva senza sfide od ostacoli da superare ma con un mondo e una storia da scoprire lentamente, passeggiando, guardandosi in giro.
Il 70% del tempo di gioco del giocatore di Red Dead Redemption è speso passeggiando e guardandosi in giro. OK, “passeggiando” può anche significare “andando in giro a cavallo” ma non è quello il punto del mio discorso: il punto, semmai, è che in mezzo a tutte le cose che Rockstar azzecca in questo capolavoro, la più importante in termini assoluti, la più fondativa ed essenziale, è la scelta a cui accennavo prima, quella di costringere il giocatore a rompersi tantissimo i coglioni.
Spero che l’espressione non venga interpretata in senso negativo, ed è chiaro che sto usando iperboli a uso ridere, e che non ci si annoia mai veramente giocando a Red Dead Redemption. Quel che intendo è che se il tentativo era quello di farci vivere un centinaio di ore da fuorilegge del West, questa idea di sbilanciare tutto il contenuto nettamente in favore delle attività più passive è forse la scelta più felice tra le mille scelte felici fatte da Rockstar. Il western al cinema è un genere che ha la straordinaria capacità di essere sintetico e concentratissimo senza rinunciare a smarmellare e perdere tempo e crogiolarsi nella sua bellezza; Red Dead Redemption, pure. Certo, ci sono tutti i dettagli che ci si aspetta in un gioco R* e in generale in un open world accuratamente ricostruito bla bla: le missioni primarie e secondarie, le città e i paesini e i fuorilegge a cui sparare, il PHAT L00T, i trofei, una modalità online sorprendentemente divertente e caotica, mirare al rallentatore per sentirsi il miglior pistolero del vecchio West.
Ma davvero, quello che ci si ricorda del gioco su John Marston è altro, ed è difficile da spiegare a parole a meno di non chiamarsi Cormac McCarthy: il western è un genere potentemente visivo, che immerge lo spettatore con il turismo virtuale tanto quanto lo fa con i personaggi e le loro storie, e Red Dead Redemption funziona allo stesso modo. È quel gioco in cui si sale a cavallo e si attraversa l’America guardandosi in giro e abbeverandosi alla fonte artistica dei Rockstarz, dove ci si orienta grazie alle stelle e a una foresta di cactus e a un canyon e a una formazione rocciosa dalla forma bizzarra e/o fallica, dove scoprire che a nordest c’è la neve è una rivelazione mille volte più potente di quel nuovo fucile o pistola o costume da cowboy o manco mi ricordo bene quali fossero gli oggetti di Red Dead Redemption, un gioco dalla granularità impressionante e completamente sprecata nel momento in cui quello che rimane davvero sono i colpi d’occhio e i paesaggi e quella sensazione quasi fantascientifica di aggirarsi in un mondo distante e alieno e fondamentalmente diverso, con le sue regole e i suoi costumi e le sue idiosincrasie.
Non esiste, credo, recensione di Red Dead Redemption che non spenda svariati paragrafi a menzionare tutte le cose che lo rendono così pieno: il poker, il giochino del coltello tra le dita (ha un nome, non me lo ricordo, avete capito di cosa parlo), l’onore, i tizi che ti sfidano a duello, gli animali feroci che sembrano spuntare a ogni angolo di strada, tutti quei cavalli. Eppure, come ogni buon western, Red Dead Redemption è definito innanzitutto in negativo, dai suoi vuoti – vorrei fare una considerazione sul Vuoto Principale che lascia il gioco quando finisce ma non lo so, magari qualcuno ancora non sa come finisce? –, ma anche dall’assoluta sicurezza nei suoi mezzi, nei suoi tempi e nei suoi ritmi, quasi arrogante nel modo in cui si permette di costruire la sua storia intorno a lunghe, lunghissime sezioni di nulla, nelle quali l’unica cosa da fare è camminare, guardarsi in giro e respirare i fiori. È una sottrazione necessaria, vista l’ambientazione (e che funziona talmente bene che Rockstar ha tentato di replicarla in piccolo con le “zone selvagge” di Grand Theft Auto V), ma gestita con invidiabile controllo e nessun riguardo per le buone maniere da open world, che prevedono che ogni cinque metri ci debba essere un punto interrogativo sulla mappa per giustificare ogni deviazione dal percorso critico della storia. O anche: per essere un’opera così enorme, in termini di puro chilometraggio quadrato dell’area di gioco, Red Dead Redemption è molto pieno di un cazzo, e ha pure il coraggio e la sfrontatezza di disseminare questo spazio negativo di momenti, luoghi, situazioni puntuali densissime ma distribuite senza alcun criterio, se non il rispetto della naturale geografia del mondo ricreato da Rockstar.
L’ho detto, è un walking simulator, almeno per una buona parte del tempo. Quando non lo è, diventa qualcosa di non così diverso dal pitch “GTA nel West”, e forse, con il senno di poi, è lì e solo lì che si annidano i suoi pochi difetti. Ma quando lo è, quindi innanzitutto nella mente di chi l’ha creato, è un gioco che fa del nulla un’arte, e che peraltro sa usare il suo nulla come tavolozza per dipingere momenti memorabili, che in altre opere minori finirebbero nel dimenticatoio pochi minuti dopo l’ennesima sparatoria. Arrivare a Blackwater o Armadillo, le metropoli del gioco, e scoprire i negozi, la ferrovia, il ragazzino che vende i giornali, è uno shock culturale per John Marston tanto quanto lo è per il giocatore, perché per la prima volta Red Dead Redemption diventa pieno, diventa come ci aspettiamo che un videogioco open world debba funzionare. La meraviglia è che questa sensazione dura poco, finisce subito. Appena abbandonati i confini della “città”, tutti gli orpelli vengono spazzati via e sepolti sotto la sabbia e Red Dead Redemption torna a fare quello che gli viene meglio: ricordarci quanto possa essere una rottura di coglioni andare da un capo all’altro dell’America a piedi o a cavallo e convincerci, come solo i buoni western sono in grado di fare, che sia in realtà la cosa più bella del mondo.
Visto Red Dead Redemption sotto quest’ottica, è curioso che anche Undead Nightmare, il suo DLC-che-poi-in-realtà-è-un-gioco-a-parte, funzioni alla grandissima per i motivi opposti. Ispirato a [cosa horror a vostra scelta], riempie l’area di gioco di zombi con una scusa assolutamente risibile, quindi validissima, e trasforma le passeggiate contemplative del gioco principale in una costante fuga per la sopravvivenza, qualcosa che assomiglia più a Dying Light che a Dear Esther o Gone Home. È una reinterpretazione dell’avventura di Marston (e di tutto l’edificio di gameplay che gli è stato costruito intorno) in un’ottica tra l’action e il survival, un gioco che ti sta costantemente addosso e che mette alla prova tutto quanto imparato in Red Dead Redemption in termini di come si spara, come si mira, come si ammazzano altri esseri viventi. Il tutto declinato nel modo più camp possibile, senza alcun riguardo per la solennità dell’ambientazione: Undead Nightmare è un delirio di carne maciullata e corpi putrefatti che esplodono, alla faccia dei tramonti rosso sangue e degli spazi sconfinati. È intenso ai limiti del fastidioso e, in quanto tale, è fatto per essere giocato prima che vissuto – il che lo porta a scricchiolare più spesso del fratello maggiore, perché se scendiamo ad analizzare robe tipo le meccaniche di gioco, il bilanciamento delle armi, la sensibilità dei comandi, il feedback loop tra i tasti che pigiamo e quello che succede a schermo, Red Dead Redemption è tutto tranne che perfetto o il miglior rappresentante del genere. Nonostante la zoppìa, però, Undead Nightmare ha il grande merito di essere costantemente divertente, intrattenimento purissimo, teste che saltano, zombie esplosivi, massacri: un parco giochi non morto che prende tutto quello che rendeva grande Red Dead Redemption e lo ribalta, uscendone comunque vincitore.
Questo articolo fa parte della Cover Story più veloce del West, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.