Road Rash II mi ha reso una persona più zen | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Questa strana storia d’amore con Road Rash inizia con il primo capitolo, a cui ho giocato su Amiga, un po’ dopo l’uscita, nel senso che avevo giochi a grappolo e manco sapevo quando uscisse cosa. Ricordo solo che erano gli anni in cui volevo fare il meccanico (a sei anni ero decisamente più saggio che adesso) ed ero già in fissa per tutti i giochi di guida. Erano anni bellissimi, per i racing game arcade, e il passaggio dalla sala giochi con Out Run (io guidavo, mio padre azionava i pedali, perché mica ci arrivavo) ai momenti a casa con Out Run Europa, Lotus Turbo Challenge, Jaguar e compagnia cantante l’avevo vissuto con notevole entusiasmo. Un giorno mio padre mi porta questo Road Rash, un gioco di moto, evviva, così posso colmare il vuoto per la mancanza per Super Hang-On su Amiga.
Inizio a giocare ed è subito tutto così familiare, tranne per un dettaglio: ci si picchia male! Io provo a correre più forte, ma no, l’unica è rispondere alle botte, magari recuperando una mazza, e andare verso la fine della tappa, mostrando muscoli e ribaltando persone. Uno sballo totale, che mi prende a tal punto che quando mi blocco in una delle tappe, a causa del mazzolamento continuo, mi si chiude la vena e tiro fuori tutto il turpiloquio che un bambino di sei o sette anni, nel 1991/92, può fregiarsi di sfoggiare. Non molto, probabilmente, comunque sufficiente a far storcere il naso a mio padre, che non solo mi minaccia di togliermi il giochino, ma aggiunge anche in maniera solenne: “Guarda che se fai così io poi non ti faccio prendere la patente!”. Col senno di poi, è una frase che non ha senso, e credo di averlo pensato anche all’epoca, però, insomma, mi calmo, perché all’Amiga ci tengo, spengo, felici tutti.
Flash Forward. Anni dopo, intorno al 2000, quando l’emulazione mi consente di rimediare al fatto di essere sempre stato un utente computer fino agli anni della PlayStation, inizio a recuperare robe di pregio, ma soprattutto cose per cui avevo sempre rosicato. Ovviamente, nel catalogo del Sega Mega Drive, a spiccare c’è Road Rash II, perché non sia mai che mi perdo un gioco di corse. Sono passati anni, ma il feeling di gioco è sempre lo stesso. La qualità, sorprendente, anche anni dopo l’uscita: un fantastico senso di velocità, il peso dei colpi convincente (e c’è la catena da sparare in faccia alle persone, capolavoro!), e quell’atmosfera cinematografica di correre all’impazzata per le strade americane, totalmente immerso nella cultura biker con tanto di colonna sonora simil southern rock. Rispetto agli scenari californiani del primo capitolo, il secondo, che non fa altro che rippare parte degli sprite e costruirgli intorno un contesto migliore, guadagna una sorprendente varietà di palette cromatica e ambienti (Alaska, Tennessee, Vermont, Hawaii e Arizona) e mi riporta subito a quegli anni in cui la geografia l’ho imparata grazie al calcio e ai videogiochi. Poi, niente, il gameplay funziona e ci sono sempre le mazzate, la polizia che ti insegue, quel fatto bellissimo che se cadi devi andarti a prendere a piedi la moto mentre le macchine provano a buttarti sotto. È Need for Speed prima di Need For Speed, con le moto, ma meglio.
In ogni caso, ricordo che, quando ci ho giocato la prima volta, è arrivato quel momento lì, quello in cui ti blocchi in uno stage e non c’è save state che tenga. Proprio come quando ero piccino picciò, mi si è chiusa la vena, perché non esiste mica non finire Road Rash II, ma che scherziamo. A quel punto, però, nonostante, stia in camera mia, al mio PC, mi vengono in mente le parole di mio padre e rido, prendendola alla leggera, perché no, mica vale la pena arrabbiarsi per una roba del genere. E infatti va molto meglio così, accumulo i soldi necessari a fare l’upgrade della moto, vado giù a cannone, finisco i cinque stage, mi godo il (tristanzuolo, in verità, come succedeva troppo spesso) finale e mi sento realizzato, perché ho colmato una lacuna nella mia carriera da videogiocatore e, contestualmente, mi sono sentito una persona migliore.
Road Rash II è il culmine della serie, perché Electronic Arts proverà a cavalcare l’onda con un terzo capitolo un po’ più borghese, meno grezzo, che avrà il vantaggio di essere rifinito e portarti in giro per il mondo, ma a cui mancherà la cruda magia dei primi due capitoli. Il resto della storia della serie è scritto sul manuale “Mandare le cose a ramengo con EA”, un best seller estremamente diffuso negli ultimi vent’anni, ma che non vale la pena ricordare qui. Uno dei motivi per cui sto pensando di comprare il Sega Mega Drive Mini è proprio per rivivere le sensazioni di Road Rash II, perché a quei momenti di ignoranza devo, ancora oggi, molto. Quella velata minaccia che il mio cervello ha trasformato in insegnamento, alla fine, me la porto dietro da praticamente ventotto anni e, quando ho preso la patente, ricordo benissimo di aver pensato a Road Rash.
È una roba scema da dire e forse sarebbe andata comunque così, ma ancora oggi, sia quando mi si chiude la vena per un videogioco (tipicamente FIFA) o quando sono al volante nel traffico, mi torna sempre in mente quel momento di me a sei anni che sfanculo uno schermo, mi viene da ridere e passa tutto. Mi piace pensare che il fatto che sia una persona che prenda tendenzialmente tutto col sorriso sulle labbra sia in parte merito di Road Rash e che gli insegnamenti, nella vita, anche quelli date dalle persone più care, arrivino nei modi e nelle circostanze più insolite.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al Sega Mega Drive (Mini e non), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.