Shin Godzilla – un monumento al dio
Determinare la bellezza di Shin Godzilla (Shin Gojira) è tutt’altro che facile. Non fraintendetemi: è film sublime in ogni sua singola fibra. Allora perché è difficile determinarne la bellezza? Perché Shin Godzilla non è soltanto il più bel film sul Re dei Kaiju, tecnicamente grandioso e con virtuosismi che il genere non ha mai visto, ma è anche il film che torna a fare satira attraverso il mostro.
Parto aprendo una parentesi: io ho adorato Gojira - Final Wars (ゴジラ FINAL WARS di Kitamura Ryūhei). L’ho detto. Final Wars fu già nel 2004 un film divisorio, e la ragione si celava nell’estrema iperbole che il film stesso rappresentava: una colossale Royal Rumble in taglia XXXL, dove agli scontri fra titani si alternavano combattimenti fra umanoidi in stile A Better Tomorrow. Checché se ne dica, Godzilla Final Wars fu l’estrema sintesi dell’era Millennium: enorme, divertente e pacchiano. Il film di Kitamura non solo celebrava il cinquantesimo anniversario del kaiju atomico, ma si apprestava, per estremo volere della Toho, a mettere in stand-by a tempo determinato l’intero franchise.
Tuttavia, dopo il successo ai botteghini del reboot americano del 2014, qualcosa negli uffici della Toho a Chiyoda riemerse; era il seme della rinascita e del ritorno in patria del Re. A scrivere e dirigere il film c’erano due tizi: Anno Hideaki e Higuchi Shinji (è molto probabile che nel pronunciare questi nomi sentiate un tuono fantozziano).
Uscito in una tipica e umida giornata di luglio, Shin Gojira ammutolì una nazione. Perfettamente esplicativo nel titolo: シン Shin/Dio. Una volontà sopra le parti, incapace di contemplare l’umanità e il suo creato. Il dualismo agiografico che incorre fra Godzilla e il concetto stesso di deità è meravigliosamente rappresentato dalla sorprendente e impossibile biologia del kaiju. Un colossale animale al cui interno avviene un processo di fissione nucleare. La sua genesi evolutiva è dirompente e distruttiva, capace di gettare nell’oblio dell’ignoranza decenni di ricerche e postulati sulla vita organica. Godzilla rappresenta innanzitutto questo: una forma di vita primordiale e aliena alla scienza. Il mondo osserva il kaiju con lo stesso stupore con cui le società preistoriche osservavano i fenomeni naturali; un’espressione a noi ignota della natura e della sua creatività.
Il film si prefissa di non essere il sequel di nulla, bensì un nuovo inizio. Anno riesce meravigliosamente a metabolizzare quanto è stato scritto sul Re nel corso della storia, e lo fa amalgamando quei concetti con altri di natura meno kaijū eiga. Molti stilemi restano invariati, come lo sforzo da parte delle forze di autodifesa di arrestarlo, eppure lo svolgimento del film prosegue su binari differenti. Non abbiamo un eroe, bensì degli eroi. Questi ci vengono presentati sotto una luce misera, trattati da emarginati e ciarlatani, praticamente dei nerd. Il loro sforzo di perseguire piste fatte perlopiù di teorie non convenzionali porterà, dopo una lunga sequela di climax, alla soluzione definitiva. La loro costruzione stilistica non segue particolari voli pindarici; di fatto non abbiamo elementi stravaganti o borderline, contrariamente a quanto accadeva in alcune vecchie produzioni di epoca Heisei e Millennium.
Tornando a Godzilla, Anno e Higuchi tratteggiano l’anatomia e il comportamento del kaiju come quella di un animale. Di fatto c’è costantemente una visione scientista del mostro, trascendendolo da archetipi eccessivamente sci-fi. Il kaiju si presenta a tutti noi in una veste imprevista e inusuale: uno stato larvale, privo di arti superiori e con un aspetto in bilico fra il grottesco e l’horror.
Soltanto in un secondo momento apparirà in tutta la sua imponenza: centoventi metri in altezza, imponenti articolazioni inferiori, un derma a scaglie de facto indistruttibile, le immancabili creste dorsali e una spropositata appendice codale. Il volto del Re è quanto di più terrificante si potesse chiedere: le ossa della mandibola non appaiono collegate (come nei serpenti), caratteristica che gli permette di estendere in maniera spropositata la bocca. Quest’ultima è frastagliata da due lunghe file dentali per arco apparentemente senza alcuna utilità alimentare (o forse per mozzicare altri kaiju, chissà). Infine gli occhi, intinti di quel bianco vacuo. Maeda Mahiro ha firmato la sua nona sinfonia con il design del nuovo Godzilla, consegnando al mondo intero la sua incarnazione più sinistra e orrorifica.
Una calamità irremovibile
Godzilla nacque come una potente allegoria. La memoria collettiva giapponese, ancora segnata dagli eventi atomici di Hiroshima e Nagasaki, esorcizzò la proliferazione nucleare plasmando un’entità primordiale. Così come nel ’54, il Godzilla di Anno emerge a causa di uno scellerato smaltimento di rifiuti radioattivi, dettaglio che rettifica la sensibilità del popolo nipponico all’argomento (come ulteriormente dimostrato dalle proteste popolari a seguito di Fukushima). L’ingordigia e l’avidità umana verranno ammonite dal passaggio di Godzilla. Al di là della prima e caotica apparizione, il suo cammino sarà incessabile: ogni passo si traduce in un piccolo terremoto, con tegole e infissi che cadono ovunque; movimenti di camera ci daranno una perfetta prospettiva dell’indifferenza del kaiju verso gli abitanti.
La fuga generale della popolazione sarà interrotta solo dall’arrivo in scena delle forze di autodifesa terrestri (Rikujō Jieitai), che riceveranno l’ordine di creare una linea di difesa per abbattere definitivamente la creatura. Sarà tutto vano. Completamente indifferente a ordigni e proiettili, Godzilla approda nell’area metropolitana della capitale, innescando un meraviglioso diorama di distruzione: la notte scende su Tokyo, come sempre illuminata da miriadi di insegne e luci; in questa cornice il kaiju si impone come un elemento estraneo ma al contempo famigliare, come se Godzilla stesse a Tokyo tanto quanto Tokyo a Godzilla.
A enfatizzare come non mai la sequenza, Sagisu Shirō compone una colonna sonora monumentale fatta da musiche intrise di dramma e disperazione; Il brano Who Will Know, udibile nel momento in cui Godzilla dà alle fiamme la città con il suo soffio atomico, conferisce all’intera scena un inconfondibile senso di rassegnazione e impotenza. Meravigliose sono anche Defeat Is Not Option e Persecution of the Masses, entrambe perfettamente esplicative dal titolo. Numerosi saranno anche i riarrangiamenti degli storici componimenti del maestro Ifukube Akira, come il più iconico tema di Godzilla. Come dimenticare poi quel sorrisetto soddisfatto non appena si è presentata EM20 - Decisive Battle direttamente da Neon Genesis Evangelion.
L’altro kaiju
C’è un secondo kaiju nel film, più grande e pericoloso di Godzilla: la burocrazia. Questa è talmente ingombrante e tossica, da aver nettamente contribuito al tracollo della nazione dinanzi a Godzilla. Tutto si riduce a passaggi di responsabilità, competenze e carte bollate, con lo spettro dell’arrivismo sempre dietro l’angolo. Una gerontocrazia fatta di apparenze, toccamenti e inchini. Anno tratteggia l’intricata dieta giapponese attraverso ricorsive descrizioni dei dipartimenti e dei ministeri che i singoli funzionari rappresentano; una vera passerella di didascalie. Divertentissima la sequenza in cui un funzionario chiede a Yaguchi a quale ministero appartiene la competenza di Godzilla.
Altro elemento indubbiamente riflessivo riguarda l’ingerenza americana negli affari interni del paese. Questo aspetto è molto ricorrente anche nel cinema coreano, in cui neppur troppo velatamente viene sottolineata la sudditanza che quell’angolo di Asia ha nei confronti degli Stati Uniti. In Shin Godzilla la presenza americana è costante: reclamano dati e campioni, contribuiscono a bombardare la creatura, arrivando persino a imporre ultimatum nucleari. Gli americani nel film appaiono alla stregua di figure tetre, sempre in disparte e mai integralmente inquadrate; praticamente la Seele.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai MOSTRI GROSSI, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.