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Silent Hill 2 con la finestra aperta

Silent Hill 2 con la finestra aperta

Mentre scrivo mancano pochissimi giorni all’arrivo di Silent Hill 2, riedizione graficamente modernizzata dell’omonimo gioco horror di Konami uscito originariamente nel lontanissimo 2001 su PS2. E l’occasione è più che buona per raccontarvi una storia legata proprio al momento in cui ho giocato l’originale. All’epoca lavoravo in Future Media Italy ed ero un po’ sballotato tra DailyRadar, il sito web della casa editrice dedicato ai videogiochi (e che però stava per diventare un progetto di quelli che “non serve impiegare tutte ‘ste risorse per la roba gratuita di Internet, noi facciamo le riviste che ci fanno guadagnare soldi veri”), e PSM, su cui sarei finito poi stabilmente. Silent Hill 2 era attesissimo perché il primo era piaciuto già tanto, perché in quel periodo un po’ tutti avevamo fame di roba PS2, una console che in Europa era ancora al suo primo anno di vita e non aveva ancora sparato tutte le sue cartucce, e poi perché aveva un’estetica strepitosa.

Vabbe’, comunque. Dovevo recensire Silent Hill 2 per DailyRadar, e ‘sta cosa era un po’ un problema, per via del mio rapporto complicato con i giochi horror. Li amavo, ma potevano farmi stare male dalla paura. Non tanto durante, ma dopo. Anche durante, eh. Già mentre giocavo potevo soffrire abbastanza, e non tanto per le situazioni da jump scare, quanto per le atmosfere pesanti. Ma il problema grave arrivava sempre dopo aver giocato. Mi rimaneva impresso un qualcosa, un dettaglio, una scena, un momento particolare del gioco che mi spingeva in quello stato in cui sei lì a sobbalzare per ogni rumorino che senti, e vai a controllare dietro la tenda e forse è meglio se lasci la luce accesa. Anche in bagno e nel corridoio, meglio. Quel tipo di mood lì, non so se avete presente.

In particolare, poi, con la saga di Silent Hill già avevo un precedente importante. Avevo abbandonato il gioco allo squillare di un telefono. C’è un momento in cui sei lì a esplorare questa cittadina abbandonata e all’interno di un edificio a sua volta totalmente abbandonato squilla un telefono messo lì su una scrivania. Una roba che non ti aspetti perché pensi che quel telefono sia staccato, perché hai la sensazione che in quel posto non ci metta piede anima viva da chissà quanto tempo, e invece quel maledetto telefono si mette a squillare. Questa cosa mi mette talmente a disagio che abbandono il gioco. Ma mi piaceva, eh. Mi piaceva un sacco. Però non riuscivo a trovare quell’equilibrio tra il godimento e lo stare male che credo sia necessario per fruire bene di una roba horror. Per me la parte “stare male” prendeva un po’ troppo il sopravvento.

Con la serie Silent Hill in particolare. Perché giocava proprio sulle cose che mi fanno più paura. Le atmosfere, i silenzi, la malinconia, la nebbia. Per dire, con Resident Evil, la serie horror più famosa dell’epoca (e probabilmente di sempre), non avevo ‘sti problemi. Le componenti action e fanta-trash della serie Capcom riuscivano perfettamente a farmi trovare l’equilibrio di cui sopra e mi permettevano di godere della paura e di divertirmi con essa. Ma con Silent Hill scordatela questa cosa. E con Silent Hill 2, figurati. Era più bello da vedere, quindi neanche avevi quel distacco che può essere dato da una veste grafica non del tutto convincente. No, no, Silent Hill 2 era proprio bello. Bello e dannatamente spaventoso.

E aveva un problema folle, ahahah, una roba che ancora oggi mi chiedo se fosse voluta o meno. Penso che in molti di quelli che stanno leggendo quest’articolo lo ricorderanno benissimo, io no, comunque il giocatore impersonava tale James Sunderland, che aveva ricevuto una lettera dalla moglie Mary, morta qualche anno prima. E già qui, ovviamente, non ci siamo. Tu ricevi questa lettera e vai a indagare in questo posto sperduto che è Silent Hill. Malissimo. Ma vabbe’, è la trama di una roba horror, ci mancherebbe. Il problema, però, è che nel corso della sua indagine James incontra una certa Maria (che gli ricorda la moglie, ma tralasciamo questo dettaglio). Maria diventa un NPC molto presente per buona parte del gioco: in pratica accompagna James nella sua esplorazione di Silent Hill. Ora, il problema. Nei luoghi chiusi, ogni volta che si attraversava una porta e si entrava in una nuova stanza, io mi giravo intorno per avere una panoramica della nuova ambientazione. Oh, e puntualmente, quando la telecamera finiva sulla faccia di Maria, saltavo per aria. Davvero, non so se fosse voluto, ma era la cosa più spaventosa di tutto il gioco, per me.

Momenti di grande serenità.

Comunque, non so neanche come abbia fatto a finirlo, Silent Hill 2, davvero. E non so neanche perché ci giocassi di notte, da solo, nel monolocale in cui abitavo all’epoca, quando avrei potuto giocarci tranquillamente in redazione, di giorno, in mezzo ad altra gente. Evidentemente un po’ me la cercavo pure, la strizza. Che poi (ed è il motivo per cui tra l’altro esiste questo articolo – giopep si è ricordato di quando gli raccontavo la cosa che sto per descrivere) mentre ci giocavo di notte a casa, ogni tanto mi fermavo, mettevo in pausa il gioco, aprivo la finestra e mi affacciavo a prendere aria. Aria fredda, era novembre, infatti la finestra di base era chiusa. Ma la aprivo apposta, di tanto in tanto, proprio per il freddo, che mi riportava un po’ alla realtà. Un po’ come una sveglia. Tipo “oh, guarda, fa freddo, vedi? È il mondo reale, quell’altra invece è roba finta, non averne paura”. E insomma funzionava, ma fino a un certo punto. Però mi ha permesso di arrivare alla fine del gioco.

Poi ci sarebbe da chiacchierare anche di come è cambiato nel tempo il mio rapporto con i giochi horror e di una svolta avvenuta di recente. Ma queste sono altre storie a cui magari dedicheremo tempo in altre occasioni.

Questo articolo fa parte della Cover Story “I migliori spaventi della nostra vita”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

La paura fa 1994

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