The Caligula Effect 2 e quel fascino da cestone
Tra i vari stereotipi della stampa specializzata e non, abbiamo “il Cestone”: quella entità poco metafisica e molto fisica che ancora oggi siamo abituati, e deliziati, dal trovare in ogni tipologia di negozio da grande distribuzione e, fin dalle sue origini, negli Autogrill.
Il Cestone è sinonimo di abbondanza, prezzi stracciati e prodotti pensati fin dall’origine per finirci dentro. Molto spesso prodotti di scarsa qualità, ripoff o edizioni “remainder” di prodotti blasonati ogni tanto, raramente perle finite nel trogolo per qualche misterioso giro economico.
Se chiedete a qualunque “cestonaro”, l’ultima categoria non è mai quella per cui davvero affonda le mani nello zibaldone di merce: figuriamoci, lui è una persona razionale e non un pollo… ma poi vi parlerà per minuti e minuti di quella volta che ha trovato una edizione “mint” di The Dark Side of The Moon al prezzo del panino Camogli.
Comunque,The Caligula Effect 2 non è The Dark Side of The Moon, se aveste anche solo pensato per un attimo che si andasse a parare in quella direzione.
No, questo gioco per Nintendo Switch e PS4 del 2021 (ora anche su PS5 e PC) è ovviamente il sequel “Direct To Cestone” (DTC) di The Caligula Effect (del quale vi parlai qui) che, a sua volta, era il DTC della serie Persona come concepita da Katsura Hashino. Insomma, siamo al Cestone di seconda generazione (Second Generation Ceston).
E in questo risiedono parte del suo fascino e il 99% dei motivi per cui sono arrivato alla fine dopo 54 ore di gioco nonostante un gameplay che è, nelle parole del saggio: “un po’ una palla”.
The Caligula Effect 2, infatti, è un onesto prodotto da Cestone che neanche per un secondo finge di essere qualcosa in più.
Rispetto al primo capitolo, che qualche ambizione l’aveva ed era riuscito a fregiarsi persino di intermezzi animati e una edizione “riveduta e corretta” (e persino un anime), qui si tira al risparmio e si punta tutto sulle uniche cose che del primo funzionavano: la trama scritta da niente di meno che Tadashi Satomi, autore dei primi due Persona, il peculiare e molto coreografico combat system ed un comparto audio assolutamente di livello.
Tutto il resto viene sacrificato sull’altare del “lo famo con du’ spicci” dalla produzione Furyuu, Historia Inc. e Nis: l’infinita “collezione di figurine” che dovrebbe motivare l’esplorazione delle anonime mappe urbane e dei labirinti non certo ispirati è ancora più noiosa e approssimativa che nel primo capitolo; la grafica arriva dritta dritta dall’epoca PlayStation 2 e persino il character design, nonostante veda ai pennini lo stesso Oguchi che diede un ottima prova con i personaggi del predecessore, qui appare molto più svogliato e frettoloso.
Però, quello che deve funzionare, funziona.
Le canzoni “Virtua-J-Pop” scritte da autori tutti afferenti al mondo delle community virtuali nippofile ed interpretate dalle due doppiatrici Arisa Kouri (Regret) e Mayu Mineda (x) sono orecchiabili e funzionali alle scene d’azione. I doppiatori giapponesi, pur non essendo necessariamente volti noti, riescono a dare la giusta tridimensionalità ai personaggi, in particolare Hiyori Kono e Yuto Uemura rendono molto bene i due personaggi più schizofrenici del team: la “entusiasta senza motivo” Niko Komakura ed il dongiovanni con seri problemi di gestione della rabbia Kobato Kazamatsuri.
Il sistema di combattimento è sostanzialmente lo stesso del primo gioco, con la possibilità di scegliere le azioni da far compiere ai personaggi e vederne “alla moviola” l’effetto prima di confermarle. Permettendo la fiera delle combo spettacolari e una sequela infinita di vittorie al primo turno.
L’esaltazione di riuscire a infilare la combo perfetta è parecchio mitigata dalla considerazione, già fatta ai tempi del predecessore, che introdurre un qualche livello di sfida mettendo un limite al tempo o alle moviole per turno, oppure dando agli avversari la possibilità di “interferire” con la preveggenza, avrebbe reso le cose più appassionanti.
Non che mi lamenti di vincere facile, intendiamoci.
Infine, la ciliegina sulla torta è nella narrazione a cura di Takuya Yamanaka, autore della sceneggiatura della serie anime tratta dal primo capitolo.
Facendone un breve sunto, il nostro AFGNCAAP (scegliere se interpretarlo maschio o femmina cambia veramente meno di niente) si accorge che la realtà “sièrrotta!!” a causa della Virtuadoll X (pronuncia “ki”) che vi si è infiltrata per distruggerla in quanto… beh, non reale.
Sì, insomma, il protagonista vive in Matrix o, meglio, Redo: una simulazione immersiva totale amministrata dalla Virtuadoll Regret che vi ha portato tutte le persone che avevano un rimpianto tale da non poter più sopportare di vivere nel mondo reale. Rispetto però al Mobius del primo gioco e alle buonissime intenzioni di μ (pronuncia: “Miu”) che aveva rapito persone che avevano “toccato il fondo”, qui il contratto sembra pure più onesto, visto che apparentemente una qualche forma di consenso alla “reincarnazione” era stato dato. Infatti inizialmente X deve essere un po’ “assertiva” per ottenere la collaborazione recalcitrante del nuovo “Go-home Club” a smontare quello che ai suoi occhi è un plagio che nel mondo reale sta dando parecchi problemi a sua “mamma” μ rovinando l’immagine di tutte le Virtuadoll. Non aiuta poi il fatto che X unisce alla totale incapacità di comprendere l’ambiguità dei sentimenti umani, tratto comune delle Virtuadoll, la sicurezza sventata di una idol alle prime armi.
Comunque, a forza di insistere (o, piuttosto, di esporre i suoi alleati alla rappresaglia degli Obbligato Musicians, i nuovi alfieri della corrente divinità virtuale), alla fine riesce a convincere questa nuova Armata Brancaleone a muovere il suo assalto al paradiso, facendo contemporaneamente i conti con i suoi traumi e quelli dei suoi avversari.
Sceneggiatura e dialoghi scorrono lisci e, sebbene venga replicato il pigro sistema “social link” del primo, che sblocca la storia dei tuoi pards a tappe prestabilite purché tu li usi in combattimento per sufficiente tempo, quasi ogni personaggio del team riesce a farti interessare delle sue vicissitudini e, in alcuni momenti, riescono a sorprenderti sia rivelando retroscena ben diversi da quello che ti aspettavi (Sasara Amiki e Kobato sopra a tutti), sia confermando completamente quello che ti aspettavi (la già citata Niko).
Paradossalmente sono i personaggi su cui evidentemente l’autore voleva investire di più che hanno le backstory meno interessanti, segno che a volte concentrarsi troppo porta a perdere di vista l’essenziale.
Tutti però riescono a coinvolgere e per una volta mi sento di fare i complimenti all’adattamento anglofono che, pur essendo disonesto come un qualsiasi adattamento pagato a parole, tiene fede all’impegno di trasmettere al giocatore/lettore il senso, e non la lettera, di quello che gli attori stanno dicendo. Facendo ridere quando si deve ridere e riflettere quando si deve riflettere e rispettando integralmente lo spirito dei vari personaggi.
Molto meglio di adattamenti presumibilmente più retribuiti (cough-Persona5-cough).
La trama parte banale e scontata ed ha anche alcune leggerezze in fase iniziale, ma acquista la giusta “consistenza shonen” man mano che, come in ogni JRPG, ci si prepara a “girare sberle in faccia a dio”, avendo pure la baldanza di sfruttare le attese ed elucubrazioni di chi ha giocato al primo capitolo per infilare un ribaltamento finale che non dirò mi abbia fatto saltare sulla poltrona, ma sicuramente mi ha tirato fuori un soddisfatto plauso.
In sostanza, probabilmente questo gioco può piacere soltanto a quella nicchia di persone che ragionano come me e sono disposte a buttare cinquanta ore della loro vita dietro ad una trama shonen non originale sviluppata su un gameplay zoppicante solo per il piacere della bella battuta, del buon doppiaggio, e dell’inaspettato sviluppo caratteriale.
Se vi riconoscete in questo profilo, e magari lo trovate in sconto, dateci un occhiata.
Come me, avrete SICURAMENTE giocato a ben di peggio.