Outcazzari

Code Vein veste da dio

Code Vein veste da dio

Facciamo le debite premesse. La filosofia alle spalle dei soulslike, che alla fine è la stessa alle spalle dei metroidvania, io non è che non la capisco… io la DETESTO!

Tutta la tiritera sul “migliorare sé stessi poco a poco”, sulla “punizione che diventa premio quando sei abbastanza forte da sopravvivergli”, sul “ritornare alle origini della sfida videoludica” per me è pura retorica.
Io C’ERO ai tempi delle fottute origini della sfida videoludica! Ai tempi dello studio, memorizzazione e ripetizione di pattern fino alle soglie dell’autismo.
Che il gioco si chiamasse Pac-Man, Donkey Kong o Elevator Action io pompavo monete da cento, duecento ed infine cinquecento lire (moneta arcaica che segue di poco i sesterzi) dentro cabinati allora nuovi di zecca vigilati a distanza dal gestore del bar.

E vi dico chiaro e tondo che era una merda: una trappola concepita per separarti dalle paghette guadagnate col sudore della fronte (se consideriamo quanto si potesse sudare a lavare i piatti una volta a settimana o assicurarsi che la propria camera non fosse in uno stato tale da indurre il genitore a chiamare preoccupato il pedagogo).

Anni dopo, consolidatosi il gaming domestico, ho salutato l’avvento dei save point e, SOPRATUTTO, dei save point prima della Boss Fight come l’uomo preistorico ha accolto l’avvento della ruota e coltivato lo slittare dell’arte videoludica (la decima arte) dalla sfida alla narrativa come gli ellenici coltivarono la filosofia e la politica sdraiati sui triclini (o come stracavolo li chiamavano, visto che il termine è latino)

Io che inizio un videogame

Quando questi progressi… no, questi doni all’umanità videoludica sono stati rinnegati io vi ho colto i chiari segni di un complotto plutocratico mirato a separarci nuovamente dai nostri soldi, questa volta facendoci sostituire joypad schiantati contro il muro ad un ritmo di due alla settimana.

Dopo di che potrebbe anche essere che io sono scarso, eh?

Quindi è evidente che non avrei mai messo mano Code Vein se non me lo fossi trovato in un grazioso Humble Bundle NAMCO assieme ad altri titoli che mi interessicchiavano (sì, insomma, NAMCO due o tre cosette buone ce le ha date). Dopo di che, in quella continua (e perdente) lotta con il mio eterno backlog, è alla fine arrivato anche il suo turno. Un gioco uscito SOLO due anni fa: quanto di più vicino al “Day one” ci sia nelle mie abitudini videoludiche.

Diciamo che l’incentivo è stato anche il fatto di essere presentato come “Il soulslike anime”: un claim a cui pavlovianamente non posso resistere, confermato dall’intro che da subito mi rassicurava sull’estetica e il tono del gioco.

Chiarezza d’intenti.

Penso che si possa essere d’accordo che niente urli più “Made in Japan” della completa mancanza di senso dell’obsolescenza e vergogna nell’essere derivativi.
Solo nel paese in cui le mode giovanili cambiano ogni sei mesi (forse negli attuali tempi di crisi il ritmo si è allentato) ma in cui ogni singola moda concepita dagli anni ‘70 in poi, teddy-boy, mod, punk, goth, preppy e via dicendo continua ad avere ristretti clan in cui il capo divenuto maggiorenne la tramanda al giovane iniziato, può davvero avere senso nel 2021 proporre emo-vampiri Twilight-style che sfoggiano vestiti ed acconciature DI-VI-NE (per non tacere del giusto tocco di phard ed eyeliner, anche per i maschi) in un mondo post-apocalittico.
Persino la afasica supermorbidosa calza vesti strappate prese alla vicina sfilata di moda “off”.

Ho messo i primi straccetti che ho trovato.

Dall’incipit in poi, questa attenzione per la forma spinta fino ai confini del kitsch il gioco non la tradirà mai, a partire dalla costruzione del personaggio giocante che è ad oggi uno dei migliori “Barbie giralamoda” con cui io mi sia cimentato. Così funzionale nell’agevolarti un avatar carismatico (sospetto che ci sia lo zampino dei soliti UfoTable, ormai presenza fissa nel character design videoludico d’oriente), da farmi perdere decine di minuti a modellare colei che avrei poi portato in giro a menar spadate e morire malissimo.

Meet my waifu.

Ed è così che si crea un’affascinante quanto ironica dialettica.

Da una parte il disperato tentativo di copiare la formula soulslike con tutto quello che significa (nemici grotteschi e sovrastanti, ambienti marcescenti, promessa di morte atroce ad ogni passo, ma anche panorami sublimi nel loro grondare decadenza o disumanità) fino a scadere nel pedestre: i “mistle” che sostituiscono i falò, le specializzazioni, le armi leggere, pesanti e da tiro (manca, incomprensibilmente, lo scudo), la parata, la rotolata e il contrattacco. Dall’altra una natura profonda accomodante e svagata fino ai limiti della deboscia che, per dire, oltre al dettagliatissimo trucco&parrucco ti concede un “photo mode” con tanto di posa selfie.

Ah, no?

È un po’ come trovarsi di fronte al Kazuma Kiryu dei soulslike: un minaccioso tamarro giapponese che minaccia di sfondarti di mazzate, che porta senza ironia (nè senso del ridicolo) abiti vistosi e di dubbio gusto ma che in fondo in fondo è buono e cordiale.

Ulteriore prova di questa volontà di accogliere piuttosto che di punire è il fatto che le prime tre missioni sono talmente al disotto della difficoltà media di un soulslike che persino il sottoscritto ha dovuto impegnarsi per morire, invece che il contrario. E ulteriore prova dello squilibrio interiore che rode questo gioco è il fatto che dalla quarta missione in poi pare come avessero dato la demo in mano ad un tester esperto nel genere e la valutazione fosse stata, prevedibilmente, “non avete capito una fava: il giocatore è un asino da frustare!”.
Lo scarto di difficoltà è improvviso e quasi sconcertante, ma anche in quel caso il gioco viene incontro al giocatore che non vuole soffrire per andare avanti fornendogli alleati che fungono da vero e proprio “selettore di difficoltà”: scegliendo quello giusto da portare in battaglia si può modulare l’impegno da “dammi un aiutino” a “fai tu” e portare a casa scontri che sembravano impossibili.
Peraltro mi si permetta di dire che, nella mia limitata esperienza, li ho trovati i migliori “wingman” dai tempi di Wing Commander (Paladin e Iceman, sempre nel mio cuore): quasi mai così stupidi da ingaggiare senza copertura e persino attenti a non sovrapporsi sulla linea di fuoco, obbligando gli avversari a dividere la propria attenzione (tanto che molto spesso ero io quello che sprecava il loro acume tattico).
Non a caso l’unica boss fight che mi ha richiesto la canonica cinquantina di ripetizioni è l’unica che per motivi di trama non ammette questa comoda scorciatoia (ma allora siete malvagi!).

Ci è costata una fortuna in architetti e decoratori

La trama è coerente con tutto il resto del gioco nell’essere una banalità comoda e funzionale: mondo post-apocalisse vampira, il protagonista smemorato ma fin da subito indicato come “il prescelto” in quanto capace di poter fare tutto non essendo niente, bulli senza nome che ti prendono in antipatia e personaggi con un nome e cognome da sostituire al loro stereotipo (Principe Tormentato, Picchiatore Onorevole, Cinica Negoziante Generosa, Otaku Entusiasta, Paladino Muscolo, Lolita, Cavaliere Nero, Strega Buona e la già citata Morbidosa Afasica) che ti prendono subito in simpatia manco fossi un amico d’infanzia.
A crearti problemi: una mostruosità non mostruosa, un dittatore filantropo ed un villain con risata megalomane d’ordinanza che, giuro, ancora adesso non capisco esattamente quale fosse il suo obiettivo.

Alla bisogna, lo spadone si può usare a mo’ di snowboard.

Banale e con incongruenze tali da destare la risata. Ad esempio più e più volte viene ricordato che i “revenant”, la razza di vampiri bioingegnerizzati di cui fai parte, quando vengono uccisi in battaglia hanno due destini: dissolversi per rigenerarsi convenientemente attorno ad un “mistle” o subire la morte definitiva trasformandosi in cenere. E questo mentre gli scenari sono letteralmente tappezzati di cadaveri di revenant, alcuni in stato di decomposizione.

Banale eppure non noiosa e funzionale a ricordarti dove cercare la tua prossima tappa, al contrario dei capostipiti del genere, con la storia da interpretare ed il loro sistema di orientamento alla “cerca la zona in cui non ti ammazzano con uno sputo e forse lì troverai la chiave per proseguire”.

Tirando le debite somme: al netto della schizofrenia tra respingerti e compiacerti, al netto di alcune sporcature nella gestione di hitbox (ma magari sono io che cerco di convincermi che il mio tempismo sia infallibile), al netto dei due joypad spaccati a bestemmie e del fatto che lo ho finito con mouse e tastiera, il soulslike anime ha mantenuto la promessa di divertirmi.

Tra una seduta dal parrucchiere ed il tempo impiegato a decidere come abbinare l’ultimo spadone trovato con quella DE-LI-ZIO-SA armatura smanicata.

Giornalismi | Cover Story

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