The Last of Us - il mezzo è il messaggio
Sul fatto che la serie di The Last of Us potesse essere migliore del videogioco omonimo del 2013 (che per amor di chiarezza verrà chiamato The Last of Us Parte I da qui in avanti) ci sono sempre stati pochi dubbi. I detrattori del gioco originale, tra cui mi inserisco per evidenti meriti sportivi, hanno sempre sospettato che “se togli il gioco è meglio per forza”. Il rischio, tutt’al più, poteva essere che le divergenze tra la macchina produttiva dei videogiochi e quella delle serie ad alto budget avrebbe potuto schiacciare Neil Druckmann (co-creatore del brand) e tutti gli altri membri di Naughty Dog nel passaggio da teatro di performance capture al set, ma è anche vero che HBO ha una lunga storia di idee e creativi liberi di portare sullo schermo un messaggio il più possibile aderente alla visione originale.
Da questo punto di vista, anzi, risulta evidente quanto il lavoro su videogiochi ad altissimo budget fornisca, di fatto, tutto un set di capacità trasportabili sui set più blasonati (nonostante i videogiochi fatturino cinque volte di più) del cinema. Puntata dopo puntata, è emerso come il lavoro di Druckmann per la serie sia stato quello di trasporre le stesse vicende che i giocatori avevano già visto in The Last of Us Parte I, approfondendone i personaggi e riformulando in maniera non-interattiva quello che, per forza di cose, in un videogioco doveva comprendere una presa di posizione da parte di chi stava di fronte allo schermo. Uno sforzo, quello di spogliare il racconto dall’interattività, che dà già una sfumatura diversa alla “battuta” dei detrattori: è possibile che i difetti, o per meglio dire i limiti di The Last of Us Parte I, fossero attribuibili al fatto che era un videogioco? O, meglio, quel tipo di videogioco?
Ho sempre sostenuto che i primi dieci minuti di The Last of Us Parte I, nella loro quasi perfezione, rappresentassero esattamente la promessa non mantenuta del gioco: una miscela di blandissimo gameplay che fa da appoggio per un canovaccio narrativo già visto e prevedibile, che tuttavia funziona in maniera eccellente e getta le basi per il coinvolgimento emotivo che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto legare Joel ai giocatori. Non appena Naughty Dog ha voluto farci uscire dal giardino di casa Miller, però, il sogno ha cominciato a sgretolarsi.
Si tende spesso a liquidare i film e le serie scritte male dicendo che “hanno una trama da videogioco”, perché i protagonisti si ritrovano a dover andare da un punto A a un punto B per far procedere il racconto, come fossero in una missione di raccolta erbe di World of Warcraft, Anno Domini 2004. Tuttavia, sappiamo bene che è una critica superficiale e, solitamente, mossa da chi conosce poco di videogiochi: esistono certamente videogiochi scritti in maniera dozzinale, ma esistono anche videogiochi scritti in maniera superlativa… quel che è certo, è che i videogiochi devono essere scritti in maniera funzionale.
Se i personaggi devono affrontare una missione per raccogliere 10 [Erba] al fine di ottenere [Cilum della vendetta], necessario per sconfiggere il boss della regione, i game e narrative designer di turno avranno bisogno di comunicare quello scampolo di “trama da videogioco” per dare uno scopo e motivare i giocatori. Quella missione, a seconda della sensibilità e della capacità di chi la progetta, potrà essere proposta in maniera dozzinale o superlativa, ma sicuramente sarà scritta in maniera funzionale, altrimenti il gioco rischia di rompersi, mettendo a rischio il lavoro di decine/centinaia di persone e migliaia di dollari dello studio. Ma, chiaramente, non è solo un tema di qualità di scrittura. Dopo aver comunicato la necessità di dover raccogliere 10 [Erba], i giocatori si ritroveranno a doverlo fare, e se il processo non è divertente, stimolante o coinvolgente, anche la migliore delle motivazioni suonerà finta e pretestuosa. Al contrario, se la fase di gameplay è particolarmente coinvolgente e in grado di scaricare addosso ai giocatori badilate di dopamina, nessuno si renderà conto che la richiesta sembrava scritta da un fattone qualsiasi. Quel che voglio dire è che, per certi versi, i limiti di The Last of Us Parte I risiedevano nella sua anima.
Nei sei anni precedenti all’uscita di The Last of Us Parte I, Naughty Dog aveva sviluppato i tre capitoli della serie Uncharted, videogiochi d’azione caciaroni che si reggevano sulla funzionalità, sulla necessità di portare i giocatori dal punto A al punto B sparando a chiunque si trovasse nel mezzo. I valori produttivi erano già alle stelle e, dal momento che non si è mai smesso di accostare cinema a videogiochi, nei circolini della critica si è cominciato a sentir parlare di “dissonanza ludonarrativa”: il videogioco funzionava, era innegabile, ma per i più sensibili era difficile separare la narrazione dell’eroe di turno da una fase ludica nella quale i giocatori venivano chiamati a sterminare interi villaggi. Forse era una questione di saggi che indicavano il gameplay mentre gli stolti guardavano la trama o, forse, semplicemente il coinvolgimento emotivo richiesto da Uncharted non era sufficiente a giustificare la mole di critiche per quelle divergenze, che eppure c’erano.
Gli Uncharted furono comunque un enorme successo di critica e di pubblico (si parla di oltre 15 milioni di copie vendute per i tre giochi, dati 2015), e giustamente Naughty Dog pensò di poter mantenere la formula originale, con i dovuti aggiustamenti, caricandola però di una storia molto più matura e coinvolgente. Da un lato, un bacino di utenza così ampio non può essere destabilizzato proponendo un gioco radicalmente diverso; dall’altro, sviluppare qualcosa di diverso dal punto di vista tecnico è una spesa insensata, oltre che una sfida produttiva che nessuno è in grado o desideroso di affrontare. Sarebbe come se un’eccellente pizzeria decidesse, dopo sei anni, di passare a fare sushi e cucina giapponese: pensate a tutta la gente che prenota pensando di mangiarsi una marinara, e si ritrova sul menu ramen e takoyaki… e pensate anche all’investimento per i pizzaioli, sia in termini di tempo (dover imparare a fare qualcosa di significativamente diverso con la stessa qualità elevata) che in termini di costi vivi, tra materie prime e strumenti completamente diversi, dal forno a legna fino alle posate. La soluzione più sensata è senza dubbio quella di aggiungere una pizza col tonno sul menu e sperare che piaccia come le altre.
The Last of Us Parte I piacque eccome, lo sappiamo. Ma sappiamo anche che i detrattori puntarono tutti il dito in una direzione generica, più o meno all’incrocio tra gameplay e trama. Detto dell’inizio clamoroso, la storia di Joel ed Ellie venne prevalentemente percepita come un bignamino poco ispirato di tutta la narrativa di genere, che si dipana intorno a un gameplay poco interessante, addirittura ripetitivo e noioso. Rimango fedele alla mia analisi (credo: sono anni che non rileggo l’infame recensione… di sicuro rimango fedele a quanto ho scritto nelle prime righe del paragrafo), ma dopo la visione di The Last of Us mi è parso evidente come il mezzo sia il messaggio, e non sempre le risorse quasi infinite ti permettano di esprimere al meglio quello che vuoi comunicare… anche al netto di un successo di critica e pubblico praticamente impareggiabile.
Videogioco e serie raccontano la stessa vicenda, passando attraverso gli stessi personaggi, ma la differenza sta tutta nella famosa “scrittura da videogioco”. In entrambi i casi veniamo chiamati emotivamente e fisicamente a compiere un viaggio dal punto A al punto B ma, se nel videogioco il viaggio è intervallato da fasi di gameplay identiche tra loro, nella serie la storia è ovviamente al centro di tutto, lasciando che l’interazione tra pubblico e opera avvenga unicamente attraverso il coinvolgimento emotivo. Per questo motivo, anche le fasi più videoludiche fanno una figura migliore durante la serie: non soltanto perché nessuno può lamentarsi che il pretesto della storia sia proprio una missione di scorta, ma anche perché tutti i personaggi secondari smettono di essere delle macchiette monodimensionali col destino segnato, ma acquisiscono delle sfumature e dei caratteri che ci fanno dimenticare come, nonostante tutto, finiranno per essere delle vittime delle circostanze (ché del resto la serie si chiama “The Last of Us”, non “Tutti insieme appassionatamente”). Ogni personaggio secondario ha una storia vera, un motivo per farsi voler bene ed è in grado di legarsi agli spettatori anche a prescindere dal fatto che interagisca con i protagonisti.
Anche gli infetti, che nel videogioco vengono usati come punteggiatura all’interno delle fasi di gameplay per comunicare ai giocatori il termine degli scontri con gli umani e l’arrivo imminente di un infetto più forte, nella serie vengono centellinati. Ridotti a un costante e angoscioso elemento di sfondo, ogni apparizione è un tripudio di tensione e di carico emotivo, in grado di tenere sulla punta del divano. Inoltre, anche quello che nel videogioco veniva percepito come stucchevole rimando poco ispirato a tutta la narrativa di genere, nella serie viene menzionato quasi più per fare una tirata di gomito all’originale che per cercare di nobilitarsi, come se una citazione ovvia potesse valerti il posto tra i pilastri della narrativa di genere.
Fare videogiochi è un lavoro duro, così come raccontare una qualsiasi storia. Narratori e progettisti sanno già che non potranno accontentare tutti, e quel che è peggio è che più si alza il livello — degli investimenti, emotivo, di coinvolgimento — meno è consigliabile scontentare qualcuno. Commentando The Last of Us con gli amici a fine visione, ho detto che “se non c’avessero voluto appendere uno sparacchino scadente e avessero fatto Kentucky Route Zero avrebbero raggiunto lo scopo prefissato già col videogioco”, ma ovviamente è un’iperbole per darsi il solito tono da cazzaro saccente. Il punto della questione è che, per quanto ci piaccia pensare che videogiochi e cinema possano incontrarsi e abbiano moltissimi punti di contatto, è altrettanto vero che il primo e fondamentale scopo delle storie è essere raccontate… e alcuni modi per farlo funzionano meglio di altri.