Erased: l'anime da cui manco solo io
Non sono riuscito a resistere: noto con il titolo internazionale di Erased, Boku dake ga inai machi (La città da cui manco solo io) è innanzitutto uno dei manga coi titoli più fighi della storia.
Secondariamente, è il manga di uno tra coloro che ritengo essere gli autori più interessanti della scena giapponese, al pari di Naoki Urasawa, Hiromu Arakawa e Satoshi Mizukami. Come loro, Key Sambe riesce a unire un senso della sceneggiatura “di ferro”, ampiamente dimostrato da Kamiyadori a La culla dei demoni passando per L’isola dei bambini dimenticati e Echoes, a un tratto grafico estremamente funzionale ma mai banale. Anzi, se proprio devo dire, tra costoro Sambe è probabilmente quello il cui tratto incontra più i miei gusti, ma di questo parleremo a breve.
Terza ma non ultima considerazione, come si può intuire dall’esistenza stessa di questo articolo, La città da cui manco solo io ha goduto di una più che degna trasposizione in un anime da dodici puntate, purtroppo al momento non disponibile in Italia.
“Più che degna” è in realtà ancora un eufemismo, considerando quanto raramente io sia rimasto soddisfatto dalle riduzioni anime di manga che ho adorato. Nel ri-raccontare la storia di Satoru Fujinuma, disincantato “ragazzo delle pizze” ormai trentenne con un trascorso di aspirante mangaka “poco passionale”, la tendenza a dire le cose che gli passano per la testa e il potere assolutamente non controllabile di “riavvolgere il tempo” al sè stesso di poco prima che una tragedia accada, l’anime riesce ad essere incredibilmente fedele al manga variando solo (per ovvia necessità) il finale.
Incredibilmente fedele ma anche fresco e diverso, come se gli dei della pop-culture giapponese avessero deciso di benedire questa sceneggiatura, non con uno ma con ben due ottimi registi, Key Sambe per il manga e Tomohiko Itou per l’anime. Ciascuno estremamente competente per quanto riguarda le forze e le debolezze del rispettivo mezzo.
L’anime di Erased replica (tranne, come detto, il finale) quasi vignetta per vignetta gli otto volumi del manga eppure non cade nell’errore che molte trasposizioni hanno fatto di usare gli stessi tempi della pagina di carta. La narrazione è cinematografica, i tempi sono quelli dell’immagine in movimento, laddove il fumetto aumenta gli spazi per comunicare angoscia, l’anime li comprime, li cancella quasi facendo “scappare” la telecamera.
Potendo sfruttare il sonoro, l’anime è quasi sfacciato nell’abusarne, dall’inquietante effetto sonoro (quasi lo scatto di un otturatore) che ci avverte che siamo in un “punto di divergenza” alla colonna sonora fomentante (a partire dall’ottima opening: Re:Re degli Asian Kung-fu Generation). I rumori di fondo, il “non rumore” di una nevicata del 1988 che diventa testimone e complice di “cose brutte”, il vociare di una scuola, tutto contribuisce a riprodurre lo stesso mondo con una specificità nuova.
Laddove anime e manga convergono completamente è chiaramente nella definizione dei personaggi.
Qui non c’è dissonanza alcuna: il character design è fedele al tratto di Key Sambe, al suo modo unico di fare incrociare nelle fisionomie linee morbide e spigoli vivi che danno un che di ferino a tutti i personaggi, soprattutto quelli femminili ed ai ragazzini che sono i protagonisti di questa storia che precede di quattro anni il “nostalgismo” di Stranger Things catapultandoci in un 1989 (letteralmente) ri-visitato dagli occhi di un trentenne.
Ancora più fedele è il doppiaggio, che utilizza interpreti in gran spolvero tra cui la mai troppo lodata Aoi Yuki, vero “monstrum” tra le seiyuu con centinaia di ruoli (tra cui Madoka Kaname) interpretati in soli 32 anni di vita e 20 di carriera, che rende Kayo Inazuki un’esistenza che non solo Satoru, ma chiunque con un cuore al posto giusto, vuole assolutamente difendere. Assieme a lei, una veterana come Takayama Minami, praticamente coetanea della “demonessa” Sachiko Fujinuma (stabilmente classificata tra le prime tre “madri 2D che sposerei anche domani”) e Chinatsu Akasaki nei panni della perspicace Airi Katagiri completano il trio di “ragazze invincibili” tipiche delle storie di Kei Sanbe.
Tra gli interpreti maschili, l’italo (per parte di nonni) okinawano Shinnosuke Mitsushima, attore di film e TV con praticamente nessun’altro ruolo di doppiatore, si carica sulle spalle l’ingombrante cinismo del protagonista adulto e duetta con Tayo Tsuchiya, anche lei attrice con solo questo ruolo al doppiaggio, nei panni del protagonista a 8 anni (come ovvio, le parti di pre-adolescenti maschi possono essere rette solo da doppiatrici femmine, brutta cosa la pubertà).
Se mi soffermo così tanto sui doppiatori, oltre ad essere un po’ un mio vezzo, è anche per il fatto che soprattutto in un giallo psicologico a base di “riavvolgimenti temporali”, è in ciò che si sente, più che in ciò che si vede, che si cela la verità e servono quindi interpreti di razza per gestire quella doppia negazione che è “fingere di dissimulare”.
In questo, Erased, anzi, La città da cui manco solo io, riesce benissimo e tiene lo spettatore sull’orlo della poltrona in un giro di giostra di 12 puntate che dai giorni nostri si riavvolge fino al 1989 per tornare poi al presente con uno dei “Ritorni al Futuro” più ben congegnati io abbia mai visto.
Da recuperare in barba alla pessima distribuzione dei diritti.
(Ah, c’è anche la serie TV live action, ce l’aveva consigliata il Peduzzi qua)
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata a viaggi nel tempo e paradossi temporali, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.