Togliere la politica dai videogiochi è una cazzata
Saltuariamente rispunta fuori nel dibattito legato ad un media la richiesta di indipendenza dalla politica.
E questa, mie cari lettori, è la più grossa cazzata che si possa pretendere.
“Via la politica da” è un presupposto sbagliato, una pura e semplice contraddizione in termini.
Come possiamo tenere un prodotto svincolandolo dai suoi autori?
Perché qui non si parla solo di “togliere la politica” ma di annullare completamente quello che è il pensiero che muove la mano degli autori dell’opera, tanto è interconnessa questa con una precisa inclinazione ideologica.
Tanto noi siamo il prodotto di una stratificazione dei prodotti che fruiamo, così lo sono gli autori dei prodotti che fruiscono. Siamo tutti immersi nella stessa acqua che si sporca e si contamina dei pensieri altrui tanto siamo più a monte o a valle.
Il punto è che con gli anni si è assistito ad uno scollamento tra idea di politica e politica vera, e anche il concetto stesso di politica è deviato da quanto siamo costretti ad assistere giornalmente.
Sembra che sia ancora forte nell’uomo della strada il pensiero che la politica è la materia di cui trattano i politici, mentre in realtà il rapporto tra i due termini è inverso e i politici sono un diretto prodotto della politica. E capisco anche lo scoramento di un pubblico italiano delle generazioni di mezzo nel non trovare un punto di riferimento o una rappresentanza che si avverta come propria, ma buttare tutto in vacca e generalizzare è un lusso che non ci possiamo permettere.
La politica non è gente che urla in una stanza nella capitale, politica sono i gesti semplici, come salutiamo, come ci poniamo verso l’altro, è la tessitura del modo di essere e di vivere di una persona messa in relazione con tessiture simili, dissimili o diametralmente opposte e quindi è irrealistico pensare che il modo di essere o comportarsi non venga riversato anche nelle opere degli sviluppatori di videogiochi (ma vale anche per film, serie TV, fumetti).
Anche nel momento in cui un autore (a qualsiasi livello, credo anche quello che piazza gli alberi nell’open world di turno) dice che nella sua opera lui non fa politica sta 1) dicendo una cazzata e 2) facendo un’affermazione politica. Perché la politica è quella roba che si interessa a te anche quando tu non ti interessi di lei, e trovo ridicolo e infantile volersi astrarre da una cosa che, bene o male, condiziona le nostre vite, se non altro nella misura di quante tasse dobbiamo pagare allo stato. Sto usando un concetto materiale (il pazzo cash che regola le nostre vite) perché a quello anche volendo non ci si può sottrarre, così come alla politica.
Ma non pensiamo a “politica nei videogiochi” solo come la presenza o meno di una statua di Lenin o quanto un determinato messaggio è sbandierato in maniera esplicita. Politica è pure una serie di interazioni lasciate all’arbitrio del giocatore, e diventano azione e quindi politica, oppure azioni di gioco che non sono dipendenti dalla volontà del giocatore che è obbligato a compierle e che scatenano una reazione emotiva, anche quella politica.
Gli esempi si sprecano. Dall’uccidere le prostitute per derubarle in Grand Theft Auto, allo sparare sulle suffragette in Red Dead Redemption 2. Penso anche alla famigerata “No Russian”, la prima volta che la giochi, quando non sai in che modo le tue azioni influenzeranno l’esito della missione, e non voglio nemmeno provare a mettere in mezzo, ad esempio, le vari missioni di un Mass Effect dove puoi scegliere come risolvere la questione tra Alieni X e Alieni Y.
Volutamente non ho citato giochi “manifesto” di come ci sia politica nei videogiochi proprio per scardinare la convinzione che la politica sia solo quella urlata e un tema più sottile disciolto in ogni opera ed emergente in maniera implicita più spesso di quanto esplicitato.
Chi dice di non mettere politica nei propri giochi o mente o è in cattiva fede, perché i giochi li si deve pur vendere e quando bisogna vendere quello che si vuole evitare è un review bombing ancora prima dell’uscita del gioco per una presa di posizione politica.
Ciò non toglie che si possa legittimamente essere critici nei confronti dell’opera che si sta giocando, non sposare la sua posizione e continuare a divertircisi. Ci sta ed è legittimo ed è parte di un approccio consapevole al media videogioco e, indovinate? Anche questa è una posizione politica.
“Via la politica dai videogiochi” è lo slogan della frangia più reazionaria (ops anche questa è una posizione politica) e infantile e colpevolmente ingenua dei videogiocatori. Una posizione infantile nemmeno tanto sul media ma proprio legata alla percezione parziale dello stesso temporalmente localizzata in un periodo storico in cui non si riusciva a leggere la componente politica nei videogiochi, che sgusciava tra le maglie della coscienza.
Pepsiman araldo del turbocapitalismo.
Honda, nostalgico del Giappone imperiale.
Street of Rage, manifesto del degrado urbano.
Avalanche di Final Fantasy VII ecoterroristi veri.
In qualche momento di critica post-moderna spinta si può leggere anche Super Mario come la disperata scalata sociale, tramite matrimonio, di un eroe proletario.
Sono tutte cose che sono state sempre lì, in bella vista, sotto i nostri occhi e sono andate benissimo per anni a tutti i feroci sostenitori dell’indipendenza politica dei videogiochi.
È come se mentre il media cerca di affrancarsi dall’essere solo un intrattenimento vuoto, mentre compie un passo ulteriore verso la maturità e quindi la dignità che gli spetta, questo viene frenato dalla sua fanbase più tossica e infantile e tutto ciò è deprimente sia umanamente che artisticamente.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alla dimensione politica nei videogiochi (e non solo), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.