Puella Magi Madoka Magica - Parte 3 - La storia della ribellione: la ribellione restauratrice
Con questo commento criptico chiudevo il mio scorso articolo sulla serie Puella Magi Madoka Magica, dopo aver ricordato quale “punto di non ritorno” fu per il genere delle Majokko o “Maghette”.
Il suo successo portò una pletora di produzioni più o meno blasonate a cercare di bissarne il successo, senza manco sfiorare l’obiettivo. Facile pensare il clamore che si ebbe quando venne ufficializzato il fatto che il Magica Quartet era al lavoro sul "terzo film” (i primi due film erano, come da tradizione per le serie di successo, una sorta di sintesi della serie migliorata in tutti i comparti produttivi). Puella Magi Madoka Magica - Parte 3 - La storia della ribellione avrebbe proseguito la storia di Madoka Kaname e Akemi Homura oltre una conclusione tra le più definitive della storia degli anime.
E qui è il punto dove mi fermo e incoraggio tutti voi che avete visto la serie ma non il film a sospendere la lettura e tornare dopo averlo visto, con un’ulteriore avvertenza che parte da una domanda tipo: “vuoi più bene a mamma o a papà?”.
Avete amato più Madoka, testardamente buona con chiunque fino alla santità (anzi, alla divinità), o Homura, consacrata con zelo fanatico a proteggere una promessa? Dalla risposta che date può dipendere molto come prenderete il film.
A coloro che ricadono nella prima metà, infatti, c’è una seria possibilità che il film faccia l’effetto di uno zio stronzo e avido che dopo avervi fatto sbavare sulla promessa de “i Cento Euro” come arido (ma utile) regalo di Natale, li neghi con la scusa di “li tengo io per quando ti servirà qualcosa di utile” e poi se li va a sbambare all’Enalotto.
Coloro che ricadono nella seconda metà lo ameranno di quell’amore incondizionato e grato che si dedica ai veri amori. Io, ovviamente, mi colloco in questa seconda schiera. In entrambi i casi il film è da vedere perché è, se posso ripetere la mia valutazione della serie, un fottuto capolavoro, ma con l’ovvia disponibilità di un budget elargito senza più dubbi o remore.
A renderlo evidente è la gioia con cui Akiyuki Shimbo, storico regista della Shaft, riempie le inquadrature di architetture fantasmagoriche che variano senza continuità dal razionalismo freddissimo eppure ipnotizzante delle case e della scuola di Madoka e delle sue amiche, all’area gotica dove si svolge una delle scene d’azione migliori del decennio. Con il budget delle grandi occasioni, finalmente non sono solo gli ambienti topici (come la “casa degli orologi” di Homura, nella serie) ma tutta la scenografia a strabordare di dettagli che si possono sviluppare in rasserenanti campi di fiorellini o in escheriane sequenze di viadotti che diventano espressione dello “stato psichico” dei protagonisti come già lo erano nei *monogatari.
Le Kalafina vengono confermate (e ci mancherebbe) alla colonna sonora e le Claris (che in effetti ho dimenticato di citare nello scorso articolo) alla gioiosa sigla iniziale, come l’intero cast di doppiatrici che bissa senza una stonatura la prestazione della serie.
E’ un “more of the same”, insomma, ed è infatti la prima critica che gli viene mossa, tra un vero e proprio diluvio che spaccherà il fandom a metà. Da parte mia non contesto, mi limito a sostenere che siamo di fronte al Gran Mogol di tutti i more of the same del decennio scorso.
Per le altre critiche invece occorre che vi piazzi la Barriera dello Spoiler.
Coloro che non hanno amato La storia della ribellione, e che a sentimento sembrano essere un po’ più di quelli che lo hanno adorato, ritengono sia null’altro che un lungo fan service concepito da Gen Urobuchi dopo che gli è stato staccato un consistente assegno purché continuasse a dare ai fan ciò che, stante il finale della serie, non avrebbe potuto dargli.
Il che a me è sembrato fin da subito quasi un motivo di ammirazione: in due anni il Magica Quartet riesce a portare al cinema un film che prende le cinque protagoniste della serie e le inserisce in un arco narrativo internamente coerente, titilla in maniera sfacciata desideri innocenti come il vedere la maga rossa Kyoko e la maga azzurra Sayaka riconciliate mentre deride amichevolmente i tropes più leziosi del genere con la “sequenza di trasformazione a cinque” e la filastrocca incantesimo stucchevole al limite dell’imbarazzo, ed infine non ha vergogna di rispondere alla domanda stupida che i fan di ogni genere di superumani si pongono probabilmente fin dai tempi di Omero: “cosa succederebbe se X e Y si scontrassero come nemici”.
In questa sequenza che è ritenuta da molti, me compreso, una delle migliori sequenze action dell’anime, non è solo il “vulgar display of power” di regia e animazione a tenere banco ma anche quanto il “mercenario” Urobuchi (o il suo staff) non dimentichi mai chi sono i personaggi che sta maneggiando.
Da una parte abbiamo Mami Tomoe, la maga d’oro, veterana tra le veterane, considerata talmente forte che nessuna ha mai avuto neanche la tentazione di invadere il suo territorio. Dall’altra la maga nera Akemi Homura, detentrice del “cheat code” definitivo: il controllo del tempo. Il loro scontro, che poteva ridursi ad una mediocre esibizione circense (*cough*CaptainAmericaCivilWar*cough*) a base di leziosi quanto assurdi gun-kata si carica di immediatamente di tensione per quel terrore che entrambe condividono subito dopo l’apertura delle ostilità nel realizzare che gli automatismi alla base della loro forza travolgente si sono immediatamente impostati su “seek and destroy”.
La chiusura dei giochi, che segue uno dei più barocchi e soddisfacenti fuochi d’artificio demolitori che io ricordi, non è solo un contentino alla povera Mami, eliminata dalla serie prima di aver potuto dimostrare tutta la sua presunta forza, ma anche un memento del fatto che dietro alla sua apparenza morbidosa si nasconde una sopravvissuta abituata dal terrore della morte a ragionare sempre due passi avanti sul campo di battaglia, morta nella serie proprio per un unico momento di rilassatezza dato dalla gioiosa speranza di non essere più sola.
Ancora più incomprensibile l’accusa rivolta al finale del film e che, in zona Cesarini, permette di richiamare di striscio il tema della Cover Story. Nel Terzo Atto, Homura tradisce la “riforma” di Madoka, la rifiuta, la corrompe.
Quello che accade è un atto di puro individualismo: è il miglior discepolo del rivoluzionario che decide di pervertirne il lascito per i suoi personalissimi fini. E’ la terrorista che porta il conflitto laddove, dopotutto, si era costruita una faticosa pace, solo perché lei è l’unica a soffrire ancora. E’ l’apostolo che rifiuta di tramandare l’insegnamento del maestro ma, anzi, lo riscrive.
E’ una ribellione che è una restaurazione, un atto perpetrato per mezzo di una forza accumulata occultamente da una minoranza d’elite, praticamente un golpe che riporta il mondo ad una situazione di tensione simile a quella da cui si era partiti, con un esito apocalittico quasi certo.
Ed è esattamente quello che succede, eh? Non mi permetterei di contestare quello che è evidente.
Quello che non capisco è quando viene detto che tale tradimento sarebbe “incoerente”. Che sia null’altro che un comodo escamotage apposto a forza da mercenario Urobuchi ad una risoluzione, quella della serie, che non avrebbe ammesso seguiti. Al fine, ovviamente, di poter scrivere un quarto, un quinto, un sesto film.
A fronte di questa accusa, io capisco che la voce di Chiwa Saito sia affascinante al punto da perdersi in essa, ma mi sono sempre chiesto se i critici di questo “partito” abbiano mai ascoltato veramente le parole proferite da Homura per tutta la serie.
Per tutta la serie, sacrificio dopo sacrificio, riavvolgimento dopo riavvolgimento, Homura combatte prima per salvare Madoka e poi per onorare la promessa fatta al momento di porre fine alle sue sofferenze: «non lasciare che io diventi una maga, non lasciare che io abbandoni la mia vita normale». Tutto qui.
Riavvolge il tempo centinaia di volte solo per fallire migliaia di volte. Arriva a non sopportare quasi più la sua amica, crivella di proiettili Kyubei a dozzine, arriva a concepire di eliminare a sangue freddo una devastata Sayaka, matura a livello inconscio una tale determinazione “terminatrice” da doversi forzare ad abbassare la mira dalla testa di Mami alla sua gamba.
Solo per mantenere questa singola promessa.
Per questa singola promessa si gioca tutto, persino la sua speranza viene sacrificata in modo da poter ottenere i poteri di una strega e concedersi nell’ipotesi peggiore (o migliore?) una via di fuga: se le sue amiche la uccideranno, troverà almeno la pace.
Nel momento in cui è chiaro che non avrà pace è significativo che Homura riviva esattamente il momento della promessa: pistola in mano e pronta a sparare il colpo di grazia, questa volta contro la sé stessa ancora attaccata ai sensi di colpa, mentre si confessa
Discutibile? Ingiusto? Egoista? Irresponsabile? Per questo disgustoso e da rifiutare? Posso capire il giudizio ma, da parte mia, mi riconosco in quanto scriveva Stefano ribaltando la percezione comune di Shadow of The Colossus giusto alla fine della Cover Story precedente:
Quale che sia il giudizio etico, deve essere per lo meno chiaro che non vi è nulla di incoerente in come Urobuchi narra la ribellione, ed è di nuovo marchio dello scrittore di razza vedere come nel farlo si prenda pure il lusso di replicare la “ri-creazione” dell’Universo in perfetta continuità con quanto accaduto nella serie.
La serie infatti finiva con una sorta di intervento messianico di marca monoteista che originava un creato radioso in cui persisteva un unico puntolino oscuro. Un’Eva dotata di una conoscenza che nessuno di coloro che vivevano nel nuovo paradiso aveva. Espulsa e condannata a una solitudine irredimibile come paradossale conseguenza di un gesto d’amore.
Il film finisce con il punto oscuro che con la forza data da un amore cieco ed esclusivo nel senso più proprio della parola si appropria di una parte della luce e la tinge di un nero demoniaco al centro del quale c’è un unico radioso punto bianco: la Madoka umana restituita alla sua vita normale pur restando in contatto con la Madoka divina.
Dal Monoteismo messianico al Taoismo in una storia di maghe adolescenti. Se Urobuchi è un mercenario, l’animazione ha bisogno di più mercenari.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alla dimensione politica nei videogiochi (e non solo), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.