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La solitudine del diner in While We Wait Here

La solitudine del diner in While We Wait Here

Il diner americano è entrato senza ombra di dubbio nell’immaginario collettivo, è quasi diventato un archetipo letterario, fotografico, cinematografico e videoludico non solo nella terra natia ma anche all’estero. Sarebbe interminabile la lista di opere in cui il diner apre le sue porte e fa da palcoscenico per alcune scene iconiche nei vari media. Dalla sua ha quel fascino decadente, solitario, provinciale; un non luogo, liminale, fuori dal tempo, dove tutto e niente può accadere. Situato di solito lungo strade senza fine, in the middle of nowhere, dove il vento e i tumbleweeds sono le uniche cose animate. È il luogo perfetto per ambientare storie di provincia, marginali, inusitate.

Lo ha capito benissimo il duo italiano (anzi, marchigiano, e lo dico con una punta di orgoglio) composto da Eleonora Vecchi e Cristian Gambadori di Bad Vices Games, che ha deciso di ambientare il loro recentissimo While We Wait Here proprio in un diner, chiamato Lone Glass. Il diner in America sta più o meno come al bar in Italia e al cafè in Francia. Un luogo sempre aperto, pronto ad accogliere l’avventore per una breve pausa, due chiacchiere, un caffè, una birra, qualcosa da mangiare che non sia troppo sofisticato e costoso. Un posto popolare di solito a gestione familiare che si può frequentare abitualmente quando non si ha voglia di cucinare oppure semplicemente quando si vuole passare qualche ora in solitudine a rimuginare sulla propria vita o al contrario scambiare qualche parola con il/la barista o con altri avventori. Un rifugio per l’anima, un luogo in declino e accogliente allo stesso tempo dove aspettare di venire serviti mentre fuori il mondo collassa.

Nora e Cliff sono i gestori del Lone Glass, sono sposati e nelle prime fasi del gioco scopriamo che vogliono chiudere il locale in cerca di una vita migliore. Con una visuale in prima persona ci aggiriamo nel piccolo bar che conta solo due tavolini, un bancone che può ospitare tre clienti, un bagno e una dispensa. L’aspetto del diner è piuttosto consunto, la piastra dove cuocere gli hamburger e le padelle sono bruciate,  le luci al soffitto ogni tanto sfarfallano, il bagno è in condizioni a dir poco indecenti. Non so come hanno fatto a meritare la lettera A che indica il grado di igiene del locale in America. C’è un vecchio televisore appeso al muro quasi sempre acceso. Quando arrivano i clienti si accomodano e se hanno voglia ordinano qualcosa. Nel frattempo ci raccontano la loro vita.

Da un punto di vista di gameplay, potremmo definire While We Wait Here come un incrocio tra un walking simulator e un cooking game con scelte morali che incidono sul finale del gioco. Per fare un esempio pratico, immaginatelo come il figlio di What Remains of Edith Finch e Coffee Talk. Chiaro, no? Io che ho amato entrambi i giochi ho trovato questo mix perfetto, il giusto compromesso tra un buon storytelling e un gameplay basilare ma funzionale alla storia. In pratica, al giocatore (che può vestire i panni sia di Nora che di Jeff, ma occorrono due run diverse) tocca il compito di prendere l’ordinazione del cliente, procurarsi gli ingredienti nel frigorifero sul retro, cucinarli, impiattare e servire. Se si hanno dubbi su una ricetta, basta consultare il menù con gli ingredienti. Ci sono tutti i classici comfort food da diner: burger e cheeseburger, french fries, milkshake, pancakes, uova e bacon, caffè, birra e whisky. Una volta che il cliente ha finito di mangiare o bere, bisogna portare via le stoviglie, lavarle, riscuotere i soldi e battere lo scontrino. Non ci si deve aspettare la libertà offerta da un open world o la complessità di un gestionale. Quello che conta, qui, è l’atmosfera, il modo in cui la storia si sviluppa, il passato che riemerge dai racconti dei clienti e come viene esposto. In questo Bad Vices Games ha stoffa da vendere. Ha confezionato in un paio d’ore una storia accattivante, che strizza l’occhio all’horror psicologico e al paranormale pur rimanendo ancorata nella quotidianità di una provincia americana, ma che può essere benissimo anche quella marchigiana, italiana, europea, mondiale, universale. Ha messo in scena un cast di personaggi eterogenei che vanno dal vecchio allevatore di mucche solitario all’aspirante e avvenente attrice; dalla coppia di amiche adolescenti (che ricordano tanto Max e Chloe di Life is strange) al nerd ufologo. Tutti si portano dietro dei segreti, dei traumi da risolvere, dei rimpianti. Tutti si ritrovano nello stesso diner.

Certo, tutto scorre su binari prestabiliti e al giocatore viene lasciata pochissima libertà, se non quella di fare delle scelte morali che comunque impattano sul finale di gioco. Al di là di un paio di jumpscare che a mio avviso potevano essere evitati e di alcuni personaggi fin troppo stereotipati e abusati, l’ho trovato un gioco estremamente maturo e ben realizzato, a partire dalla peculiare direzione artistica che si rifà al 3D delle prime PlayStation, con delle animazioni molto dettagliate e un buonissimo doppiaggio in inglese. Come in Coffee Talk e in What remains of Edith Finch, però, il vero protagonista secondo me non è il giocatore e forse neanche i personaggi non giocanti. Il vero protagonista è il luogo, la casa dei Finch, il caffè di Coffee Talk, il diner di While We Wait Here. Quattro mura (molte di più nel caso di Finch) che fungono da catalizzatore di storie, che accolgono tutti, nessuno escluso. Un luogo dove rifugiarsi, in cerca di un po' di conforto e umanità, dove trovare forse ancora quel contatto umano in un mondo caratterizzato dalla solitudine sia fisica che mentale. 

Purtroppo, per vari motivi (gentrificazione, mancato rinnovamento, delivery, scarso appeal, costi di gestione, franchise), i diner così come i cafè francesi e i bar italiani, stanno scomparendo. Francesco Abazia, in un bell’articolo su Rivista Studio scrive: “Neanche le sue qualità sono in grado di squarciare quel velo di nostalgica tristezza che si prova pranzando o cenando nei diner. Un’atmosfera da sopravvissuti, con la strana sensazione che quel pasto potrebbe essere l’ultimo che consumerai in quel posto, prima che il prossimo “fancy restaurant” o burger bar di turno arrivino a pagare l’affitto. E non ti salveranno neanche le preferenze dei Millennial per il vintage, o la ricerca di una cornice alternativa per Instagram. I diner sono destinati a morire, e non c’è nulla che si possa fare per impedirlo.” While We Wait Here coglie benissimo questo stato malinconico, decadente, di imminente finitudine e lo amplifica fino al parossismo.

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