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Wilmot’s Warehouse ti spiega il capitalismo, giocando!

Wilmot’s Warehouse ti spiega il capitalismo, giocando!

Avete presente quella storiaccia dei driver di Amazon costretti a pisciare nelle bottiglie o, perché no, farsela addosso pur di non perdere tempo e rispettare tutte le consegne della giornata (robe simpatiche ed estremamente normali in una società “evoluta”)? Ecco, Richard Hogg, creatore di Wilmot’s Warehouse, fa più o meno il contrario, cercando di non farci più alzare dalla tazza mentre si lavora nel virtuale (ovviamente se Switch-muniti come il sottoscritto), rischiando danni permanenti alle gambe o, per lo meno, intere mezz’ore di intorpidimento.

Un magazzino in bianco e nero, un furgone che consegna beni di ogni tipo a cadenza regolare, un paio di minuti per sistemarli in modo più o meno logico e poi la saracinesca si alza, arrivano i clienti e c’è da COR-RE-RE, LA-VO-RA-RE, guadagnandosi delle graziose stelline se saremo celeri e gentili, per poi timbrare il cartellino e ricominciare il loop, concedendosi una pausa solo una volta ogni tanto. Per riorganizzare il negozio eh, mica per prendere una boccata d’aria sui campi di Neo Turf Masters.

Ma guarda che bel catalogo, sembra il mio carrello di Amazon…

Ma guarda che bel catalogo, sembra il mio carrello di Amazon…

È stilizzato, ma c’è tutto: il giudizio costante sul nostro operato, del cliente come del Megadirettore Galattico di turno, gli orari da rispettare, una quantità spropositata di merce che continua ad accumularsi fino a far mancare l’aria, sepolti da simboli che rappresentano cibo, utensili per la casa, materiali edili, fino a forme geometriche astratte che il mio cervello traduce in droga, e che infatti tendo ad accatastare tutte insieme per avere un effetto grafico decisamente poco funzionale ma splendidamente psichedelico. Capitalismo formato arcade, Tetris della vendita al dettaglio, Memory da magazzino. Un gioco clamoroso, bellissimo, che ci porta a godere con cose che nella realtà ci manderebbero ai pazzi.

Questo perché Wilmot’s Warehouse riesce a portare in scena una routine che rende tutti questi elementi, tipicamente tossici, del luogo di lavoro ingredienti di sfida e game design, senza per questo indebolire il suo messaggio. È un cortocircuito geniale, pura allegoria di un sistema che rischia costantemente di andare in arresto cardiaco, l’obesità dell’organismo produttivo, il colesterolo dell’invenduto in circolo, il defibrillatore di una crisi ciclica per ammazzare e resuscitare il mercato.

Il dettaglio dei clienti vestiti un po’ da carcerati, con la loro targhetta distintiva, spiega un po’ la visione dell’autore sul mondo del commercio: siamo consumatori, non persone, numeri e stelline, mentre chi sta dall’altra parte del bancone a la…

Il dettaglio dei clienti vestiti un po’ da carcerati, con la loro targhetta distintiva, spiega un po’ la visione dell’autore sul mondo del commercio: siamo consumatori, non persone, numeri e stelline, mentre chi sta dall’altra parte del bancone a lavorare, è un semplice quadratino, ancor più privo di umanità.

Siamo parte integrante dell’ingranaggio, assunti dal gameplay per soddisfare ogni richiesta; il nostro alter ego sorridente, commesso modello che scatta di qua e di là prendendo dieci prodotti alla volta e facendo una fatica del diavolo. Ma si sa, la vostra soddisfazione è il nostro miglior premio! Gli spazi organizzati in corridoi stile supermercato, aree tematiche, oppure accazzodecane secondo i nostri schemi mentali più reconditi (ed è esilarante guardare cinque walkthrough diversi interpretati in cinque modi differenti), perdendo l’orientamento, il controllo, l’ansia da time attack che ci prende alle spalle immaginando già il cazziatone del boss dopo che il cliente se n’è andato via spazientito, mugugnando mentre scrive la sua recensione negativa, lamentandosi per il nostro ritardo.

Gli stessi potenziamenti, acquistabili investendo le nostre stelle di gradimento, sono tutti al servizio del consumatore: muoversi più veloci, spostare più scatole, tirare giù le colonne che sostengono l’edificio per creare più spazio (che è un’immagine molto divertente, guardandola in modo economico).

L’estetica minimale sboccia di pari passo al riempirsi inesorabile del magazzino, che dalla sua oscurità tratteggiata di bianco esplode di mille colori!

L’estetica minimale sboccia di pari passo al riempirsi inesorabile del magazzino, che dalla sua oscurità tratteggiata di bianco esplode di mille colori!

È l’escalation tipica del puzzle game, con quel ritmo in crescendo esponenziale, ma applicata ad un contesto lavorativo su cui è praticamente perfetta. Il genere che da astratto diventa rappresentazione della realtà, modificando quel tanto che basta il linguaggio (non più un pozzo ma una piccola area dove muoversi liberamente) e lasciando che l’estetica faccia il resto. I cubi che rimangono lì a macerare, eliminati attraverso la vendita e non con combinazioni di forme o colori, il game over che rimane esattamente uguale, causa sovraffollamento di blocchi, ma questa volta contestualizzato in un default aziendale, diventando quasi liberatorio.

È la politica che si insinua ovunque, anche quando uno pensa di essere salvo, di essersi comprato un bel rompicapo per rilassarsi; e invece PEM!, ecco che il gameplay ti ricorda le storture del nostro modello economico, interpretando quella gente che deve fare turni da millemila ore nelle warehouse di Amazon per sostenere la nostra comodità, quella di un semplice tap su un’app per smartphone, che ci permette di soddisfare quel bisogno materiale la mattina seguente un ordine fatto per noia dopo cena. E come loro, anche noi nel gioco finiamo per essere esasperati da come il gameplay ci tratta, tirando un sospiro di sollievo a fine partita.

Un altro bel bancale di roba da sistemare. L’assuefazione  che crea il gameplay ideato da Hogg riuscirebbe a far diventare uno stakanovista anche il più pigro dei lavoratori!

Un altro bel bancale di roba da sistemare. L’assuefazione che crea il gameplay ideato da Hogg riuscirebbe a far diventare uno stakanovista anche il più pigro dei lavoratori!

In un mondo ideale sarebbe una delle (tante, per fortuna) opere perfette da inserire in un percorso di studi che tenga in considerazione anche il medium videoludico, per raccontare agli studenti certi meccanismi sociali attraverso l’interazione, affiancandolo alla teoria dei libri di testo. Un’opera didattica quanto terribilmente efficace dal punto di vista ludico, frutto di quella libertà tanto invidiata al panorama indipendente, che con pochi mezzi e tante idee sta trainando la questione politica nel videogioco. Dedicato a tutti i Wilmot di questo mondo, cassieri, magazzinieri, spedizionieri che ci rendono la vita terribilmente più semplice, permettendoci di essere perfetti consumatori…

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata alla dimensione politica nei videogiochi (e non solo), che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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