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Wrong Turn – The Foundation ha le idee chiare (ma solo fino a un certo punto)

Wrong Turn – The Foundation ha le idee chiare (ma solo fino a un certo punto)

La gente viene in montagna per cercare qualcosa. Qualcosa che giustifichi la vita e la renda degna di essere vissuta.

Il Wrong Turn originale, datato 2003, lo vidi in televisione quasi per caso, un paio di anni dopo la sua uscita nelle sale, in una calda serata estiva. In quel periodo Italia Uno proponeva, ormai da diversi anni, una serie di film horror che componevano appunto il ciclo Notte Horro”. Praticamente, una tradizione.

Wrong Turn era, né più né meno, uno dei tanti esponenti del nuovo corso del cinema horror dei primi anni duemila: film patinati, con abbondanti dosi di gore e splatter, spesso e volentieri con protagonisti attori soprattutto televisivi. La maschera di cera, i remake di Non aprite quella porta e Le colline hanno gli occhi, tanto per fare qualche nome, erano le punte di diamante di questo nuovo filone del cinema di genere e, oltre a condividerne più o meno tutte le caratteristiche sopra citate, ne condividevano anche trama e relativo sviluppo: un gruppo di giovani, durante il classico viaggio on the road, incappano in uno o più maniaci assassini. Il novantanove per cento del gruppo diventa carne da macello, morendo in modo sanguinoso e cruento, e la final girl affronta la minaccia uscendone vincitrice (non senza aver dovuto sudare le proverbiali sette camicie, altrimenti che maniaco sarebbe?).

Wrong Turn vede appunto questo gruppo di giovani in viaggio, i quali, deviando il loro percorso verso una scorciatoia che poi si rivelerà tremendamente sbagliata (come suggerisce appunto il titolo), si ritroveranno nelle grinfie di una terribile famiglia di cannibali deformi. Del film non mi ricordo molto – anche perché l’ho visto una volta sola – e l’unica cosa veramente interessante di tutta la pellicola era la presenza di Eliza Dushku, che oltre ad essere un gran bel vedere, per me sarà sempre Faith Lehane di Buffy e relativo spin-off Angel.

Cose che non sapevo di volere perché non sapevo che esistessero.

Nonostante il film non fosse un granché, deve aver probabilmente generato introiti sufficienti tra sala e home video per generare, fino al 2014, ben cinque seguiti, creando una vera e propria saga horror. Non ho visto nessuno dei seguiti annessi, anche perché arrivati direttamente in home video, ma non devo essermi perso nulla di memorabile, in quanto, leggendo in rete, sono tutti di qualità abbastanza bassa, creati solo per gli amanti del genere e per quel piccolo sottobosco di fan di questa saga.

Mi dimenticai completamente di Wrong Turn, fino a quando, una sera di febbraio di un paio di anni fa, controllando se ci fosse qualcosa di interessante in televisione, vidi che su Rai 4 era in programma la messa in onda di Wrong Turn – The Foundation. Credendo si trattasse di uno dei tanti film della saga, non lessi nemmeno la trama perché sapevo già cosa mi sarei trovato davanti: i soliti ragazzotti bellocci massacrati dai soliti cannibali in un mare di sangue e organi assortiti.

E invece, non fu così. O almeno, non del tutto.

Wrong Turn – The Foundation inizia come una sorta di thriller, con un padre, Scott Shaw (interpretato da un vecchio e imbolsito, ma combattivo, Matthew Modine) che si reca in West Virginia per cercare la giovane figlia Jen, scomparsa da circa sei settimane insieme al suo ragazzo e altri quattro amici, dopo essere partiti per fare un’escursione in montagna. La polizia e gli abitanti del luogo cercano di far desistere l’uomo dai suoi intenti, perché “se sua figlia si è persa nel bosco, il bosco ormai se l’è presa per sempre”.

Parte un lungo flashback, che vede l’introduzione del gruppo e di come sono arrivati nel West Virginia. Uno si aspetta il solito gruppetto di bambocci ricchi e viziati sempre con lo smartphone in mano, dediti a pubblicare su Instagram qualunque cosa abbiano nel piatto, e invece no. Il gruppo è vario ed eterogeneo, e conta sia una coppia omosessuale che una coppia fra etnie diverse (Jen, la protagonista, è bianca, e Darius, il suo ragazzo, è di colore). Nessuno di loro è un ricco mantenuto ma lavorano tutti (Milla, l’altra ragazza del gruppo, è addirittura un medico), e, piacevole sorpresa, anziché essere buttati alla rinfusa come carne da macello, si cerca di dar loro anche un approfondimento psicologico. Adam lavora nel settore no profit perché sogna una società più giusta e senza diseguaglianze sociali, mentre Jen, dopo aver conseguito due lauree, lavora come cameriera senza sapere cosa fare nella vita. Nonostante le avvertenze della popolazione locale e l’ostilità dei redneck del luogo (efficacemente stereotipati come i classici bifolchi sdentati, con il cappellino con visiera in testa e fucile da caccia d’ordinanza), i sei decidono di avventurarsi nei boschi abbandonando il sentiero principale (altrimenti che Wrong Turn sarebbe?), cosa che li porterà nelle grinfie della comunità rurale che vive isolata nei boschi.

Il tipico redneck nella cultura popolare.

Ecco che mi aspetto che arrivino i cannibali, e invece no.

La Fondazione che dà il sottotitolo al film è una comunità di persone apparentemente normali, che da oltre un secolo e mezzo vive nei boschi, senza alcun contatto con il mondo moderno. Nel 1958, dodici famiglie decisero di isolarsi andando volontariamente a vivere sui monti Appalachi, temendo la rovinosa caduta dell’America in seguito alla guerra fra gli stati del Nord e quelli del Sud, e pronti a rifondare la nazione in base a principi più sani ed equilibrati: una comunità senza distinzione fra razze, religioni o ceto sociale, dove tutti contribuiscono per il bene comune. La Fondazione è andata avanti così fino ad oggi, con una sorta di “tacito accordo” con la popolazione dei dintorni: noi non diamo fastidio a voi e voi non ne date a noi. Per preservare la loro comunità, gli stranieri che incappano nelle loro terre non vengono lasciati liberi di tornare indietro: o muoiono a causa delle trappole disseminate dagli stessi abitanti del luogo, oppure vengono “processati” da una sorta di tribunale che li condanna all’oscurità (cosa che, si scoprirà verso la fine del film, porterà i malcapitati a vagare per sempre nelle caverne, privi di occhi e lingua).

Chi del gruppo non è ancora morto sarà costretto a trovare il modo di sopravvivere. Nonostante non ci siano particolari sorprese nello svolgimento della trama, il film ha un finale ben orchestrato, cattivo e spiazzante, che chiude egregiamente la storia.

Wrong Turn – The Foundation non è un semplice capitolo della saga, ma costituisce un vero e proprio reboot della stessa (d’altronde oggi si ripesca e si rimette in circolazione qualunque cosa, anche saghe modeste come questa). Alan B. McElroy, che aveva scritto il film originale, riprende in mano il franchise ripartendo dalle fondamenta ma cambiandone completamente il contesto. Nonostante venga mantenuto il canovaccio tipico dei film di genere, il film, oltre a dosare nella giusta misura sangue e violenza, abbandona completamente il contesto della famiglia cannibale per adottare quello della comunità rurale, non dissimile da quanto visto in The Village o Midsommar, cercando di far oscillare una sorta di bussola morale fra il gruppo di ragazzi e la comunità (fondamentalmente, i membri della comunità si fanno i fatti loro e puniscono chi invade il loro territorio nonostante gli avvertimenti, ed è stato uno dei ragazzi del gruppo a scatenare la violenza, uccidendo uno dei membri della Fondazione) e soprattutto cercando di introdurre temi quali l’uguaglianza sociale e un certo sottotesto politico. La pellicola mostra infatti una parte di America fortemente tradizionalista e moralmente ipocrita che rifiuta la modernità e il progresso.

Nonostante non abbandoni le proprie radici horror, Wrong Turn – The Foundation ha il coraggio e l’intelligenza di cercare di far ripartire la saga distaccandosi dal passato (alla fine del film, Jen farà una battuta a proposito dei film horror sui cannibali, tutti uguali) e cercando di raccontare una storia di persone con un proprio background, chi più, chi meno. Purtroppo, nonostante le buone premesse e la voglia di fare qualcosa di diverso, il film sembra sempre sul punto di voler dire qualcosa di più senza però riuscire a centrare il punto, senza mai riuscire ad accontentare nessuno: troppo lontano dall’originale per i fan della saga, troppo poco horror per gli amanti del genere. Il mix fra thriller e folk horror funziona ma fino a un certo punto, ed è un peccato, perché la voglia di dare spessore e nuova linfa alla saga c’è, eccome.

Molto probabilmente, Wrong Turn – The Foundation non sarà il primo di una trilogia come nei piani dell’autore, ma godrà prima o poi di un nuovo capitolo che tornerà alle origini. Però una visione, anche solo per quel finale, a mio avviso la merita.

Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli orrori di provincia e al folk horror, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.

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