Jackie, cento minuti di dolore
Jackie racconta i momenti e i giorni immediatamente successivi all'omicidio di John Fitzgerald Kennedy attraverso gli occhi, i desideri, i ricordi ma soprattutto la sofferenza della sua vedova. Lo fa abbracciando i punti fermi della Hollywood che racconta storie vere, per il modo in cui, come da tradizione, cerca di rimanere fedele all'essenza, alle emozioni, ma romanza i fatti, a cominciare dal giornalista con cui Jackie si confronta nel raccontare: fittizio, ma basato su gente realmente esistita. Non è però un film banale e inquadrato senza vie di fuga all'interno di una struttura standardizzata, anzi, Pablo Larrain, al suo esordio hollywoodiano, ha realizzato magari il proprio film meno personale, ma ci ha comunque infilato una forza, una personalità e una capacità di sfuggire ai cliché del genere che davvero non ci si aspetta in questo genere di film.
Tolto un singolo momento in cui non era davvero possibile fare altrimenti, la macchina da presa rimane costantemente, inesorabilmente, crudelmente agganciata a Natalie Portman e alla sua interpretazione fenomenale, strizzata a metà fra l'imitazione quasi inquietante e il desiderio di infondere comunque nel ruolo una personalità propria. Da lì nasce un racconto fortissimo sull'elaborazione del dolore, sull'evoluzione straziante che passa dallo shock iniziale al contenimento spaesato, dall'improvviso, esplosivo lasciarsi andare alla successiva voglia e forza necessarie per riprendersi e trovare un nuovo punto di partenza. È solo una delle tracce narrative che compongono il film ed è forse quella più tradizionale e facile, ma Larrain la racconta con un lavoro fantastico sulla protagonista, aggrappandosi al suo volto e accompagnandone gli stati d'animo mano a mano che, con l'incedere del film, si allontana sempre più da lei, come se fossero il dolore, l'ansia e l'insicurezza a guidarne la macchina da presa.
Già solo la maniera in cui il film riesce ad affrontare un racconto del genere senza scivolare nel cliché, nel patetismo, nella lacrima furba e facile, sarebbe un gran risultato. C'è però anche il bel racconto sulla fine di un'era, sull'opulenza che svanisce, sul desiderio di preservare il passato, che diventa in fondo anche discorso metacinematografico per il modo in cui Larrain si diverte a mescolare materiale d'archivio e girato in cui riproduce quello stesso materiale. Ma rimane sempre tutto centrato sulla figura di Jackie Kennedy, raccontata nei suoi (romanzati) ricordi personali non solo attraverso il filtro del lutto, ma anche nella propria natura di figura iconica e nelle azioni che portò avanti durante e subito dopo la vita alla Casa Bianca, in ciò che seppe rappresentare per il popolo americano.