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Kingsman - Il cerchio d'oro: era meglio il primo™

Kingsman - Il cerchio d'oro: era meglio il primo™

Quando sono capitato su Kingsman – Secret Service in TV – ché al cinema me lo ero perso - non conoscevo né il fumetto di partenza di Mark Millar e Dave Gibbons, né avevo realizzato che del regista Matthew Vaughn all’epoca avevo già potuto apprezzare almeno un paio di film: Kick-Ass e X-Men – L'inizio.

Nonostante le mie lacune, il film mi ha tenuto incollato dall’inizio alla fine. Per carità, ero pure una preda facile: adoro le robe di spionaggio, la dietrologia e le organizzazioni segrete; sono un fan di Bond e mi piacciono un sacco le storie di “costruzione dell’eroe”. Però in Kingsman - Secret Service avevo anche trovato un delizioso humour nero, che lasciava filtrare da sotto la porta parecchi sottintesi espliciti, crudi, a loro modo anche coraggiosi. Poi, insomma, quello stile iperbolico, con tutte le strizzatine d’occhio ai Bond classici degli anni Sessanta e Settanta. I personaggi carismatici, funzionali e (quasi tutti) ben scritti. Ma soprattutto una regia capace di prendere tutti gli ingredienti di qui sopra e di farne carburante per una serie di sequenze d’azione strepitose e violente al netto del sarcasmo. In testa, quel “ballo” nella chiesa, che da solo vale tutto il film e che getta nel tritacarne l’immagine classica del Colin Firth “attore posato da commedie e drammi romantici” (anni prima, per arrivare a qualcosa di simile, Hugh Grant aveva dovuto farsi pizzicare con una squillo).

In questo senso, non è un caso che la frase più incisiva e programmatica del film sia “i modi definiscono l'uomo” (“manners maketh man”), laddove i modi sono le azioni, e l’azione è l’azione.

Poi, per carità, qualcosina che non mi era piaciuto c’era. In particolare non avevo gradito la caratterizzazione del cattivo Richmond Valentine (Samuel L. Jackson), troppo sopra le righe e caricaturale persino per il contesto (gli ho preferito di molto la Sofia Boutella/Gazelle, bondiana al punto giusto), così come non mi aveva fatto impazzire la faccenda dei “fuochi d’artificio” nel finale. Comunque, tutto gasato, dopo la visione sono andato a recuperarmi su Netflix anche The Pusher e Stardust, e qualche giorno fa mi sono presentato alla prima proiezione utile de Il cerchio d'oro carico di belle aspettative, ché pure i trailer mi avevano attizzato.

E invece.

E invece è successo che in questo film Vaughn, nonostante un buon attacco, abbia scelto di miscelare gli ingredienti in maniera diversa, abbondando con le cose che del primo episodio mi erano piaciute meno. La scrittura riduce tutta la cattiveria, il cinismo e le ambiguità che lasciavano la bocca piccante alla fine di Secret service, sacrificandoli sull’altare di un (mezzo) politicamente corretto, per quanto opportunamente travestito: tutta la faccenda dell’hamburger che si vede all’inizio, per fare un esempio, mi è sembrata uno specchietto per le allodole per mascherare l’ammorbidimento generale dei toni. Poi, per carità, leggo che sia Secret Service che Il cerchio d’oro sono classificati come “R”, ma se il primo ci si tuffa a bomba, questo ci puccia appena i piedi.

Comunque, a prescindere dal tono e nonostante un ritmo che tiene comunque botta dall’inizio alla fine, e un cattivo interessante (la Poppy di Julianne Moore, boss del cartello della droga in fissa con l’America anni Cinquanta, è parecchio più ispirata di Valentine, per quanto altrettanto sopra le righe), anche l’intreccio e la costruzione dei personaggi e delle loro motivazioni mi sono sembrati un po’ troppo piatti, incapaci di esplodere nell’epica e di servire al meglio la “cazzimma”.

È pur vero che il primo Kingsman era agevolato da tutta una parte introduttiva di costruzione e presentazione del contesto nella quale Vaugh era particolarmente a suo agio. Qui quella parte viene sostituita dall’antitesi degli Statesman americani, che purtroppo rappresentano forse la più grossa occasione persa del film. Nonostante l’agenzia di intelligence “cugina” dei Kingsman scenda in campo poggiata sulle spalle belle robuste di Channing Tatum, Il Cerchio d’oro non riesce a mettere in piedi un mondo adeguatamente articolato e interessante come potrebbe essere quello di Animali fantastici e dove trovarli (che parte dagli stessi presupposti: tra l’altro, il nuovo Artù è interpretato da Michael Gambon, già Albus Silente nei film di Harry Potter). La butta quasi sempre in caciara e in cliché da turista che, OK, c’erano pure nel primo Kingsman, ma lì erano affiancati da tutta una parte iniziale pucciata nei sobborghi e nella piccola criminalità inglese, decisamente più interessante del “country & western” di questo sequel.

Tutta questa America di cartone finisce con l’appiattire un po’ anche i personaggi di contorno, ed è un peccato, perché le scelte di casting sono buone e l’agente Champagne di Jeff Bridges sulla carta aveva tutte le carte in regola per tenere testa all’Artù di Michael Caine, mentre purtroppo finisce confinato sullo sfondo a fare pose, laddove sarebbero bastate poche pennellate giuste per rendergli giustizia.

Attento, perché il messaggio subliminale è fottiti, lasciami in pace e vaffanculo!

Stesso discorso vale per l’agente tequila di Tatum, che nonostante le potenzialità pazzesche, finisce subito in panchina (al netto di una presenza tanto forte quanto fuorviante nei poster e nei materiali di marketing). In qualche modo il film investe sui personaggi (e sugli attori) più deboli, come l’agente Whiskey di Pedro Pascal o il redivivo Charlie di Edward Holcroft, che non riescono a tenere il passo con Colin Firth/Harry Hart, Taron Egerton/Eggsy/Galahad e Mark Strong/Merlino. Tra l’altro, la momentanea inversione della gerarchia tra mentore e allievo è uno fra gli aspetti più godibili del film (mentre lo stesso non si può dire della linea comica affidata a Elton John).

Comunque, tutte queste debolezze, unite ai colpi di scena citofonati, finiscono col togliere slancio e incisività alle sequenze d’azione, che pure ci sono, sono spettacolari come da programma - soprattutto quelle in tag-team tra Harry e Eggsy - ma entrano meno in empatia con lo spettatore.

Poi, per carità, capisco che fino adesso ho elencato soprattutto difetti ma nel complesso il film non è da buttare e fa molto più di altri: intrattiene, ha ritmo e c’è pure tutta una linea narrativa gustosa che prende per i fondelli la faccenda Donald Trump/Hillary Clinton. Eppure non riesce a raggiungere la solidità, il carisma e la capacità di sintesi del primo Kingsman: capisco che non può essere un demerito in termini assoluti e che i confronti non sono obbligatori, però ci sono rimasto un po’ male.

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Ho visto Kingsman - Il cerchio d’oro il giorno stesso dell’uscita, giocoforza doppiato in italiano e quindi, inevitabilmente, perdendomi accenti, dialetti e tutte quelle differenze linguistiche e fonetiche tra USA e UK che sicuramente aggiungono sapore a una roba del genere, tutta basata sui contrasti tra costumi. Fate voi.

Rabi-Ribi: vorrei un bunny-vania con bullet hell, grazie!

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Old! #225 – Settembre 1997

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