Ai miei tempi la KASTAH era diversa!
Vi ricordate il podcast che ho registrato insieme ai nostri carissimi Colaneri e Bellotta? Di quel gioco, Infinity, che mi ha dato l’impressione di essere una capsula temporale verso gli ani Duemila?
Bene, quel gioco mi ha influenzato più di quanto pensassi.
Mi ha fatto ripensare ai tempi passati; non tanto a ricordi felici riguardanti come giocare a pallone o connettere i Link Cable al Game Boy per giocare, ma proprio al modo in cui l’informazione è cambiata, a come si sia assottigliato quel legame tra creatore e fan. A come oggi, insomma, tutti siamo tutto e al tempo stesso niente.
E Ok, messa così sembra un insieme di ovvietà; forse è il senso di questo articolo, oppure sono frasi fatte che mi escono di getto - vai a capire: di solito quando scrivo vomito parole alla velocità della luce senza nemmeno rifletterci; fatto sta che la società negli ultimi anni è drasticamente cambiata, e non necessariamente in meglio.
Diamo ad esempio uno sguardo alla situazione dei portali che parlando di videogiochi: chi ci scrive molto spesso lamenta dei tempi ristrettissimi per provare e recensire i vari prodotti; c’è chi giustamente si lamenta delle paghe, laddove trenta euro ad articolo a fronte di giochi lunghi sessanta o settanta ore sono effettivamente poca cosa. Addirittura c’è chi denuncia dietrologie massonica tra i PR e i recensori.
Insomma, un gran casino, e sebbene io non sia mai entrato con entrambe le scarpe nella professione, mi sono sempre reso conto dei problemi di un sistema che ci spinge verso un consumo incessante di giochi focalizzato alla condivisione dei nostri pareri online. È un gran peccato, visto che ormai non si riesce quasi più a metabolizzare con calma un videogioco, una serie TV o un qualsiasi contenuto prima di esprimersi.
Ripeto: non ho mai fatto parte di questo mondo e probabilmente non lo farò mai. Probabilmente sono più adatto a un certo tipo di scrittura “narrativa” che alle analisi, ma riesco a leggere le problematiche e i cambiamenti del settore. Quando ero piccolo, semplicemente, il mondo non era così.
Fino a quindici anni fa per informarmi sui videogiochi non badavo troppo a internet (pur bazzicando Spaziogames ed Everyeye attraverso il browser di PSP); il mio interesse andava alle riviste cartacee, dove trovavo le recensioni firmate da gente come giopep, Kenobit, Bisboch, Zave e Ualone; insomma di tutte quelle penne che col tempo hanno contribuito a formare il mio gusto verso i videogiochi. Per anni ho sognato di diventare un loro collega all’interno di una redazione come quella di PSM, XBMU, o perché no, NRU.
Da piccolo (parliamo di circa vent’anni fa, tanto per farvi sentire ancora più vecchi) sognavo sul serio di scrivere spalla a spalla con tutte le persone sopra citate; di riderci, scherzarci e parlare di videogiochi fantasticando su PlayStation 5 o sulla console unica tanto auspicata da Ualone (spoiler: oggi molte di quelle persone posso contattarle quasi quotidianamente grazie a internet, e sono ben felice di poter condividere i miei hobby assieme a loro e a tanti altri). Però, non penso che se oggi avessi nove anni sarebbe la stessa cosa.
Erano tempi diversi, più rilassati: al cesso non postavo gli sbrocchi delle mie live su Twitch; al cesso leggevo le recensioni dei videogiochi che mi interessavano, magari titoli giapponesi che da noi manco arrivavano; oppure mi sparavo qualche anteprima, leggendomi le avventure dall’E3 di chi si era sparato il volo verso Los Angeles solo per vedere quel trailer o provare quel gioco.
Le riviste erano impaginate in maniera assurda, e a condire il tutto c’erano disegni divertenti dedicati ai protagonisti di questo o quel gioco; insomma, anche l’aspetto del prodotto in sé era curato e mi piaceva molto. Era un mondo diverso, meno frenetico: le informazioni ci arrivavano a cadenza mensile, e spesso e volentieri le uscite dei giochi non erano molto lontane da quelle delle riviste.
Oggi invece a dettare i tempi di pubblicazione sono i publisher o gli algoritmi di Google, ed è un meccanismo che a me, personalmente, non piace.
Nulla da togliere all’encomiabile lavoro dei PR, che restano pur sempre un meccanismo dell’ingranaggio, ma questo sottostare al “pubblicare prima degli altri per sfruttare il momentum” non mi piace. Non mi piace perché in un certo senso non lascia il tempo di assorbire un’opera, notare i particolari, confrontarsi con altre persone. insomma: al giorno d’oggi si corre per essere profittevoli.
Non che in passato le varie riviste fossero delle ONLUS; però, ecco, penso che chi ci lavorava sopra aveva indubbiamente più tempo per scrivere e per giocare nonostante le inevitabili deadline: dopotutto la rivista andava anche impaginata e distribuita. Tuttavia, trovo assurdo che uno strumento come internet, etereo e immateriale, debba sottostare a scadenze così rigide: i padroni di internet siamo noi utenti, cerchiamo di dar spazio ad un articolo su Deathloop anche due mesi dopo l’uscita del gioco, suvvia!.
Un’altra cosa che trovo in un certo senso “rotta” del meccanismo dell’informazione di oggi, sono i commenti sui social network: tutti possono dire tutto e tutti possono avere il risalto che vogliono, se si muovono bene. E sebbene non neghi di sfruttare molto spesso i social per pubblicizzare quello che faccio, non posso fare a meno di criticarli per le derive più tossiche. Moltissime persone che non sanno come funziona la “filiera produttiva di un articolo” pensano che dietro ci siano grandi complotti, gente pagata per dire questo o quello su un determinato gioco, ma in realtà non è così e non è mai stato così.
Trovo che in questo ultimo periodo ci sia il bisogno e la necessità di educare gli utenti su come funzionano i portali, il web e la pubblicità. Perché spesso si confonde la pubblicità sul sito con: “ Eh, ma allora se publisher X paga portale Y allora hanno comprato la recensione”. Non funziona così, così come spesso e volentieri molti commenti negativi sono dovuti a piccole incomprensioni del testo, imprecisioni del recensore o disattenzione in chi legge che rischiano seriamente di demotivare le persone. Un tempo, si poteva scrivere alla posta delle varie redazioni, e il fatto che ci fosse una moderazione “interna” faceva sì che il confronto fosse equilibrato e civile: le lettere inadatte o scortesi venivano scartate. Ma con i social questo non si può fare, le condivisioni generano molta visibilità e di conseguenza non si possono tenere troppo sotto controllo i commenti.
Piuttosto che verso un confronto civile, l’avvicinamento tra giornalisti e utenti ci sta portando ad arroccarci sulle nostre posizioni. “Ah, se tizio X dice così, allora io dico Y” e non si discute; si battibecca su stronzate che non hanno alcun tipo di riscontro e servono solo a farci perdere tempo. E mentre scrivo, mi rendo conto che forse il problema non è il progresso tecnologico in sé, non sono i tempi che cambiano con Facebook, TikTok eccetera; ad avvilirmi è semmai la distorsione di certi strumenti.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata al giornalismo, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.