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Catherine: Full Body, nel segno della pecora

Catherine: Full Body, nel segno della pecora

E la vita Caterina, lo sai, non è comoda per nessuno.

Pigro, bugiardo, schivo nei confronti delle responsabilità e perennemente in ritardo. Tipo il tizio di Ritorno al futuro, che non arrivava mai in tempo a scuola o a cena, ma un giorno si trovò completamente fuori dal tempo. Da qualche mese a questa parte, mi vedo più o meno così. Non nel senso di Marty McFly, ma in quello dell’indolente, pigro eccetera.

Se poi questa descrizione corrisponda o meno al vero importa solo fino a un certo punto, dato che la vita è fatta soprattutto di percezioni e costrutti, e percezioni e costrutti mica possono sempre girare a nostro favore. In fondo, ho attraversato pure un sacco di fasi OK durante le quali mi sentivo un gran figo. Karma: oggi così, domani chissà.

Comunque. In via di questa mia attitudine e una serie di altri motivi, Catherine: Full Body è stato il mio gioco dell’anno appena passato e sicuramente è ancora nella top-ten di quello in corso. Per taglio, stile e meccaniche, sicuro, ma soprattutto perché mi è arrivato in faccia al momento giusto, centrando praticamente tutto quello che c’era da centrare, nonostante sia in giro praticamente dal 2011. Solo che nel 2011 - quando ero pure anagraficamente più vicino al protagonista del gioco, pensa te - la versione liscia mi aveva lasciato a casa, mentre a ‘sto giro ci sono caduto con tutte le scarpe, nonostante i peli bianchi nella mia barba (i capelli no, quelli sono ancora magnificamente folti, scuri e giovanili).

Del resto, l’ho ben detto che sono sono sempre in ritardo, ed evidentemente era destino che il mio momento con il coming of age di Atlus arrivasse con la versione Full Body, per quella capacità che hanno certe opere di inseguire la propria preda fino a quando non la acchiappano. E negli ultimi mesi sono stato evidentemente la preda perfetta di Catherine, inteso come gioco, e non tanto per le componenti porcellose o fedifraghe (magari!), ma in via di tutta una serie di task e responsabilità che sono venute a sfidare la mia proverbiale tendenza alla staticità, a restarmene fermo e procrastinare. Una tendenza affilata negli anni che mi permette, entro certi limiti, di imputare eventuali mancanze a un fantomatico me stesso del passato, e contemporaneamente a palleggiare le grane verso quello del futuro, come se non avessero nulla a che fare con il presente. Confortante, no? (Insomma).

Eccome!

Stanato da questa convergenza, ho finito per approcciare Catherine in maniera davvero onesta. Ho cercato, nei limiti del possibile, di reagire sinceramente alla domande e alle situazioni che mi venivano proposte, empatizzando col protagonista e le sue magagne relazionali, condividendone sudori freddi e sensi di colpa. In questo mi ha aiuto moltissimo il fatto di aver giocato quasi solamente di notte, generando un’involontaria coincidenza tra la mia veglia videoludica e i sogni elaborativi di Vincent, che a loro volta paiono la versione giapponese (nel senso di “più giapponese”) degli analoghi in Haruki Murakami.

Proprio lo scrittore di Kyoto, con quel suo gusto per le narrazioni sbilenche e perennemente sospese, mi pare una lente interessante per provare a inquadrare il lavoro di Katsura Hashino (e di Kenichi Goto, per quanto riguarda Fullbody). C’è così tanto di Murakami, in Catherine. Ci sono i mondi onirici che si impicciano con la realtà ed eventualmente presidiati da misteriosi uomini-pecora (montoni?), che tutto chiedono fuorché di essere contati, tipo in Dance Dance Dance e Nel segno della pecora.

Questo è quello che intendo per "sogno elaborativo".

Ancora, i racconti di Murakami abbondano di giovani uomini che nel mezzo del cammin vagano in cerchio in cerca di un qualche sblocco, spesso rappresentato da misteriosi figure femminili sdoppiate tra sogno e realtà. Eh, sì, poi ci sono i bar, la notte, il rapporto irrisolto tra passato e presente, ma più di tutto, Murakami e Hashino sembrano condividere la passione per le narrazioni ctonie e i simbolismi al servizio del perturbante. E forse è propria questa la ragione per cui i loro lavori mi piacciono così tanto, la stessa che mi spinge a dare di matto per qualsiasi fregnaccia firmata da Lynch o a sopportare la prosa ampollosa di Lovecraft.

Catherine ha la rara capacità di tessere attorno al giocatore una ragnatela di sogno. Un attimo prima, te ne stai lì a scambiare messaggini piccantelli con la Catherine/Katherine/Rin di turno, quello dopo ti ritrovi a fissare lo specchio del bagno convinto di averci scorto qualcosa di impossibile. Forse una tua versione incasinata, forse BOB.

Nel caso qualcuno se lo stia domandando, “perturbante” è il tacchino che vi sorprende in camera da letto senza che ci sia modo di spiegare razionalmente la sua presenza lì.

Proprio come nei racconti di Lynch e Murakami, il tema del doppelgänger in Catherine non è soltanto elemento decorativo ma rappresenta la chiave dell’esperienza: a partire dai nomi e dall’aspetto degli interessi amorosi del protagonista, passando per le misteriose sorelle Uspenski, fino al coin-op dello Stray Sheep. Quest’ultimo, oltre a riprodurre in minore le sessioni puzzle, attraverso un riferimento meta nemmeno troppo sottile, tira in ballo la fiaba di Raperonzolo che, come ho ripetuto millemila volte, rielabora a sua volta il mito del ratto di Persefone, evocando la dimensione infera, eccetera eccetera.

Eppure, quasi a voler bilanciare tutte queste moltiplicazioni, il gioco è letteralmente diviso in due. Da una parte la componente narrativa “luminosa”: le sequenze al bar, i dialoghi, i ricordi eccetera; dall’altra i sogni, che si appoggiano alla grammatica dei puzzle game per commentare il mito attraverso il rito. I puzzle conferiscono peso all’impianto narrativo, richiamano il giocatore alle sue responsabilità e aggiungono quel sadismo tipico di certi manga survival, tipo As the Gods Will, Gantz o Dragon Head. Manga che, proprio come Catherine, viaggiano sul tema della catarsi, eventualmente accessibile a fronte dello scioglimento di trappole, gare o imbrogli che rielaborano, esternelizzandole, le paturnie dei personaggi.

Certe bizzarrie di Gantz fanno pendant con quelle di Catherine.

Così, al netto di certe trovate pacchiane (di quelle che saltano fuori spesso, quando si gioca ad acchiapparella con la cultura alta e quella bassa) Catherine finisce per bilanciare alla perfezione tutte le fonti che lo agitano e a metterci un sacco del suo, muovendosi tra scenette kitsch e sorprendenti lirismi e offrendo al giocatore - nel senso stretto, per una volta, di chi decide di stare al gioco - una preziosa opportunità per provare a riflettere sulla propria natura e su certi limiti della morale.

Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.

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