Goat Simulator e il racconto di due città | Racconti dall'ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Il seguente Racconto dall’ospizio potrebbe essere più anziano e lacrimevole del dovuto, dal momento che, incredibile a dirsi, Goat Simulator è uno fra i ricordi più vivi della mia prima gamescom da inviato per la stampa specializzata. Correva il 2014, la mia barba era ancora un terrificante pizzetto che non poteva farcela, Pocoto era ancora vivo e la mia bromance con Fotone era appena cominciata. Il mio entusiasmo per la situaz (nonostante il solito viaggio della speranza per arrivarci) era tanto, come tanto era l’entusiasmo della città di Colonia per i videogiochi, dal momento che oltre alla fiera più scomoda dell’anno (la gamescom, per l’appunto), i teutonici erano ancora convinti di poter fare una Game Developers Conference decente al di fuori di San Francisco.
Proprio a quell’ultimo scampolo di GDC Europe (non mi è chiaro quante ancora ne fecero, visto che ogni anno la situazione diventava sempre più ridotta e, francamente, ridicola), uno dei talk girava intorno a Goat Simulator: Armin Ibrisagic, Game designer & PR manager (!?) di Coffee Stain Studios, salì sul palco a raccontare come una follia fosse diventata davvero il nuovo gioco di un manipolo di sviluppatori del nord Europa, famosi fin lì per due sparatutto tenuti in vita dai DLC. Come accade in molti studi di sviluppo, galeotto fu il brainstorming all’inizio del processo creativo, in cui tutti i membri del team possono presentare le proprie idee per un nuovo gioco. Armin, che mi immagino come il collega molesto che ti invia i video stupidi sullo Skype aziendale mentre sei lì che lavori, aveva proposto una sorta di Twister da tastiera prima che quelli di What the Golf? si inventassero Keyboard Sports (che fine ha fatto, Keyboard Sports?), un gioco di skateboard in cui spaccare tutto e, beh, un open world il cui unico quid era “video di capre”. Davvero.
Ora, è facile immaginare che i colleghi di Armin lo abbiano gentilmente accompagnato alla scrivania come si fa con i mentecatti, perché fondamentalmente è quello che avremmo fatto tutti, almeno all’epoca, per poi concentrarsi su un’idea che avesse più senso. Ed è altrettanto facile immaginare come, durante le solite fasi di pre-produzione di un progetto in cui lavori per dieci minuti e per il resto delle 7 ore e 50 cerchi di essere produttivo per convincerti di non aver sprecato completamente la tua giornata (curioso come questa cosa si applichi anche alla vita nella stampa videoludica, tutto sommato), il povero Armin si sia dedicato a montare un mostro di Frankenstein con quelle tre idee, convinto che si potesse fare davvero. Come avrete intuito, il mostro di Frankenstein si rivelò essere una demo embrionale di Goat Simulator, che fece smascellare dal ridere un po’ tutti in pausa pranzo, tanto che il nostro, tomo tomo cacchio cacchio, caricò su YouTube un breve video delle cose matte che succedevano nella demo e, nel giro di 5 minuti, raccolse 20.000 visualizzazioni. La valanga era partita e internet pensò bene di pretendere quel gioco senza senso, con la grafica tipica degli asset ancora non lavorati e un milione di contenuti caciaroni, per il puro gusto del LULZ.
Dopo mesi di aggiunte, rielaborazioni e l’inevitabile passaggio per la “vera” GDC, Goat Simulator sbarcò su Steam e, tenetevi forte, rientrò delle spese di sviluppo in appena dieci minuti dall’uscita, superando il milione di dollari nell’agosto del 2014. Considerando che, dopo quell’estate, Goat Simulator diventò una vera e propria icona della follia, lanciò proseliti (I am Bread e una valanga di Simulator altrettanto idioti nel concetto ma se possibile ancora più superflui dell’originale) e, soprattutto, uscì su tutte le piattaforme esistenti, mi stupisco che Coffee Stain non si presenti a tutte le fiere di settore tirandosela come la Wargaming dei tempi d’oro, che sempre alla gamescom era solita regalarti un guardaroba nuovo e l’ultimo grido in termini di gadget tecnologici, pur che parlassi di giochi a cui diosanto non giocheresti neanche con il PC di qualcun altro. In realtà, scopro adesso guardando sul loro sito una cosa che avrei già dovuto sapere: Coffee Stain Studios ha preso la carretta dei soldi caprini e ha pensato bene di fare anche da publisher a diversi altri giochi, tra cui il terrificante Huntdown, di cui abbiamo parlato male alla GDC 2017. Certi amori fanno giri immensi, cazzarola.
Ad ogni modo, Goat Simulator, di per sé, era una cagatona folle e adorabile, eccellente per l’allora nascente mercato degli streamer sempre alla ricerca di qualcosa a cui urlare dietro, letteralmente. Prima che uscissero le due (?) nuove aree di gioco e la loro mole di contenuti da prendere a testate, la prima sortita della capra era esattamente quello che Armin aveva in mente dal minuto zero, un grande parco giochi (neanche così grande, a dire il vero) in cui il quadrupede andava in giro giocando con la fisica, la gravità e la sua testa, slinguazzando qualunque cosa gli capitasse a tiro, nella speranza di causare una risata a chi lo stava controllando in quel momento. Il gioco proponeva degli obiettivi da superare e, soprattutto, ha sempre fatto di tutto per farsi rompere, quindi, laddove i contenuti originali fossero finiti (e succedeva abbastanza presto), bastava modificare la gravità o scaricare uno dei miliardi di asset creati dall’utenza attraverso il Workshop di Steam e risolvevi una serata tra amici particolarmente sfigata.
Vorrei tanto concludere con una metafora sul fatto che una roba bollata come cazzatone invendibile anche dai suoi stessi creatori abbia raccolto le mutandine dei fan urlanti, i fantastiliardi di dollari e addirittura salvato delle vite, ma alla fine la stampa videoludica si regge sulle solite quattro figure retoriche e, tra l’altro, credo di essere pure abbastanza uscito dal gruppo, quindi non saprei proprio tirare le fila di un discorso così complicato e, forse, anche intelligente. Quello che so è che, oh, Goat Simulator è una dimostrazione del fatto che i videogiochi sono assurdi e bellissimi anche quando sono il vuoto pneumatico, che ogni tanto basta crederci tantissimo e che, alla fine, una risata ci seppellirà. Ed è proprio per questo che non gli si può volere male.
Tra l’altro, un’altra cosa che ricordo chiaramente con affetto di Goat Simulator è che gli diedi 7,6… un decimo in più di quella roba lì, solo per scorno. Forse ho capito perché sono uscito dal gruppo.
Questo articolo (?) fa parte della Cover Story bizzarrissima, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.