Non drogatevi, Paprika è il miglior trip che vi possa capitare
Paprika di Satoshi Kon è tipo il Carnevale di Viareggio se la cartapesta dei carri fosse stata dipinta con una vernice all’LSD, evaporando poi sotto il sole e inducendo gli spettatori a dei trip allucinanti! Una parata che non si capisce dove voglia andare a parare, come uno di quei sogni da cui non ci si riesce a svegliare, intrappolati nella fase REM, con gli occhi che vorticano nelle orbite per cercare di cogliere ogni singolo colore, dettaglio, follia del subconscio. In certe sequenze, Paprika trascende il linguaggio cinematografico per diventare il buco della serratura nella mente di un creativo, l’immaginazione lasciata vagare senza meta attraverso i tratti del disegno, partendo dall’idea fantascientifica della DC Mini, geniale apparecchio che permette di entrare nei sogni del paziente, plasmarli, riprenderli, analizzarli per cambiare irrimediabilmente il mondo della psichiatria. Curare la depressione, alleviare traumi psicologici, diventando però inevitabilmente strumento di terrorismo nelle mani di chi vuole confondere sogno e realtà, eliminandone i confini, creando l’incubo definitivo.
Kon si diverte tantissimo a giocare coi sensi dello spettatore e dei protagonisti, annebbiando la vista con un senso estetico pazzesco, creando scene a matrioska in cui la bambola più grande (e di bambole inquietanti, qui, ce ne sono parecchie) contiene tutte le altre alla rinfusa. Straordinaria, in questo senso, la scena in cui la dottoressa Atsuko va coi suoi colleghi a casa del sospettato numero uno, per poi finire immersa nel sogno senza neanche rendersene conto, svegliandosi quindi a cavallo della ringhiera del balcone, salvata in extremis dai riflessi di Osanai (e vista dagli occhi di uno che sogna spesso di cascare dal settimo piano, è ancora più inquietante). In questo suo pasticciare estremamente controllato, geometrico con i concetti di realtà e finzione, il regista trasforma la sua opera in un discorso (anche) meta-cinematografico sulla contaminazione tra i due mondi, osando ancora più che in Millennium Actress e inserendolo in un contesto bizzarrissimo, fuori di testa! È un parlare di cinema a tratti esplicito (soprattutto quando è in scena il capitano Konakawa, da giovane aspirante regista), in certi momenti allegorico, come attraverso le parole e le intenzioni del suo villain; “In questo mondo crudele, il sogno è l’unica testimonianza di umanità che ancora ci resta”. Una riflessione amara, che però Kon cerca di combattere attraverso i suoi personaggi, per impedire che il cinema, la fantasia, diventi esclusivamente un luogo di isolamento. È poi, in una delle carrellate sul folle corteo, una festa di simboli stereotipici giapponesi che ballano e cantano strofe sconclusionate a ritmo di marcia, infezione che si propaga a macchia d’olio nel subconscio della popolazione, che il regista getta definitivamente la maschera, alza il tono del messaggio e tutto prende una forma più satirica, davvero viareggina. Politici che si contendono letteralmente il trono del paese a colpi di proclami e impiegati che si buttano dall’ultimo piano dell’ufficio col sorriso stampato in faccia, come stessero preparando un numero di nuoto sincronizzato. Tutto intorno, il caos, il MACCOSA travolgente, una danza verso il buco nero del nulla cosmico, come se la pelle del Giappone, la sua estetica appariscente, nascondesse un organismo marcio, corrotto, in metastasi. Si vede ed è palese la voglia di comunicare qualcosa, non oltre l’immagine, ma attraverso, intorno, per il dritto e il rovescio, perché Paprika è qualcosa che riempie fino all’orlo gli occhi e l’immaginazione.
“Lei non crede che i sogni e internet siano abbastanza simili? Sono luoghi in cui si esprimono desideri repressi”, dice Paprika incontrando Konakawa nel suo bar virtuale adibito a studio di psicanalisi.
E Kon dà infatti sfogo ad ogni pulsione, trasforma ogni stimolo in immagine e parola, tanto che per larghi tratti sembra di guardare qualcosa di pornografico (non proprio come l’omonima commedia erotica di Tinto Brass però), osceno per quanto non abbia freni inibitori, sensuale. Si lascia andare a un flusso di coscienza che evidentemente non poteva più tenersi dentro, mantenendo il contatto con la realtà solo appoggiandosi ad una struttura da thriller, come quella di legno e ferro che sorregge la cartapesta dei carri allegorici. Una corsa contro il tempo dalle percezioni sempre più fuori fuoco, un’escalation di finezze registiche che usano la CGI con maestria e mai con invadenza (e c’è più di una frecciata, a riguardo), mostrando la shakespeariana sostanza dei sogni come fosse un telo di plastica che si strappa applicando la giusta pressione, permettendo di passare attraverso i vari strati del subconscio. Droga pesante da assumere per via oculare, su per i nervi come fossero montagne russe fino al cervello, dove i neuroni si accendono tipo Akihabara di notte. Fenomenale. C’è oltretutto un gusto per il grottesco e l’inquietante che è da sempre marchio di fabbrica del regista, straniante, tra body horror e menti preda della follia che si riconoscono subito dallo sguardo, quegli occhi che solo lui sembra poter infondere di una pazzia implacabile, irreversibile, quella di gente che si è scollata definitivamente dalla realtà. E poi lei, Paprika, alter ego di Atsuko, come un’Alice che fa avanti e indietro attraverso lo specchio secondo il suo umore, muovendosi leggiadra in ogni riflesso (e il paragone, soprattutto con la versione Disney, non è casuale). Quando c’è lei in scena, tutto le ruota intorno, come se fosse un’entità pura, l’unica che riesca a conciliare sogno e realtà, a distinguerle e viverle in equilibrio. È un film talmente denso di simboli e significati che ogni visione fa girare la testa, sovraccarica il cervello di input visivi e sottintesi. Il perfetto e involontario testamento artistico di un autore che morirà di lì a quattro anni, quando ne avrà quarantasei, portandosi dietro un modo di fare animazione esplosivo, tagliente, dissacrante, fondamentalmente unico.
Con queste premesse, è naturale che uno come Christopher Nolan abbia colto l’idea e deciso di “rubare” la tecnologia inventata dal genio giapponese, proprio nell’anno della sua scomparsa, 2010. Farla sua per reinterpretarla in chiave grigia, desaturata, piena di cemento, declinando il viaggio nei sogni altrui in spy story onirica (sono riuscito a non usare ‘sto aggettivo fin qui e l’ho inserito senza alcuna apparente utilità!). E personalmente sono contento che l’ultima delle idee geniali di Kon sia capitata in mano proprio al regista britannico, per diventare uno tra i film più iconici del millennio, vivendo per sempre nel panorama pop con la medaglia di capolavoro appuntata al petto. Inception, alla fine, è il White Album dopo Sgt. Pepper, Paprika dopo la rehab.
Questo articolo fa parte della Cover Story “Febbraio bizarro”, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.