È facile amarsi nella Bassa cremasca
C’è un odore particolare d’estate, tra le campagne della bassa Pianura Padana, forse unico. Non è quello del fieno né dell’erba bagnata dopo un acquazzone improvviso e passeggero. È più quello del sole, che cuoce lentamente l’erba, rubandole dall’alba al tramonto l’essenza vitale; quell’umidità che durante la notte si è infusa del profumo della natura, della clorofilla, dello stesso colore verde, consumando lentamente ogni singolo filo come fosse una bacchetta d’incenso, il loro fumo invisibile capace di appannare con una coltre bianca il cielo azzurro.
La leggera brezza tiepida che trasporta altri ingredienti, l’asfalto bollente, una stalla poco distante, il granturco, l’attesa. L’attesa che la giornata scorra anche se tutto sembra immobile, irreale, avvolto da un’afa che non dà tregua e rende balsamica quell’aria così densa, al punto da dare alla testa. Una giornata lunga tre mesi, interminabile. È facile amare quando il tempo perde di significato, l’orologio viene sostituito dal termometro, l’addio diventa talmente lontano da sembrare inconcepibile, retaggio mortale di una vita finalmente eterna. Incubo da asciugare dopo una notte senza l’aria condizionata.
Più vita che villeggiatura, la campagna; una noia sacra e inviolabile, piena, immobile anno dopo anno, a cambiare solo i modelli delle auto che percorrono strade capaci di conservare ancora il ricordo del dopoguerra. Le fugaci memorie di un gruppo di anziani che giocano a briscola, bestemmiando e bevendo un bianchino così acido che ci si potrebbe pulire il calcare. Ex-partigiani, ex-fascisti, resi semplici sopravvissuti dal caldo e dalla stanchezza. Sedersi a un tavolino vicino a loro per ascoltarne il dialetto e rinfrescarsi con una birra ghiacciata; un panino al salame in mano, la sedia di plastica, blu stinto, talmente rovente che potrebbe sciogliersi sotto il nostro peso. Un ombrellone griffato Sammontana che avrà almeno trent’anni, un buco perfettamente rotondo, bruciato dalla sigaretta distratta del proprietario all’ora di chiusura di un giorno perso nella quotidianità; il sole che allunga un raggio per passarci attraverso. Le campane suonano messa, i versi della Bibbia in loop, roguelike liturgico, penitenza per guadagnarsi il pranzo domenicale. I canti svogliati dei fedeli che echeggiano fuori dalla chiesa mentre una ragazza esce dal prestiné con un sacchetto pieno di pane caldo.
Il suono delle ruote di bicicletta libere dalla schiavitù del movimento centrale e che girano per inerzia, perché così va. Le gambe stanche, la maglietta sudata da trà via. Pedalare diventa l’unico modo per muovere qualcosa, svegliare l’aria dal suo letargo, talmente infastidita da trasformarsi in quel temporale serale, rinfrescante e rinvigorente da godersi sul portico, in boxer con un libro tra le mani.
Le parole scritte che scorrono sotto la superficie dei pensieri, mescolandosi in un cocktail che si pianta sullo stomaco e trascina a fondo, la corrente dei tormenti troppo impetuosa per essere affrontata senza annegare, quando la luce fuori dal tunnel dell’adolescenza è visibile ma ancora troppo distante e non ci si può ritenere ancora completi, e forse non lo si sarà mai. Elio e Oliver sono solo due ragazzi di passaggio accolti nel languido grembo della pianura assonnata, i piaceri bucolici e quelli fisici, il sesso e lo scazzo post-prandiale, assopendosi al cinguettio ASRM degli uccelli: uno conosce tutto del posto ma niente di sé stesso, l’altro è l’esatto opposto. I profumi di albicocche e pesche appena colte, uno sguardo, l’acqua di fiume frizzante all’alba, una carezza, la stessa tensione e attrazione che c’è tra gli insetti e il nettare, il richiamo della natura, della gioia.
Crema è solo “somewhere in northern Italy”, il 1983 come un fiabesco “c’era una volta”, un numero dai confini sfumati impreziosito da Walkman, FIAT 127, Love My Way e poco interessanti discorsi su Craxi e pentapartiti che si perdono nel vento. La dolcezza nel nome e quella provvidenziale e provinciale distanza da Milano, il concetto di tempo sempre più dilatato e rarefatto all’allontanarsi dal capoluogo, che lo trita, tira e brucia come i capitali a Piazza Affari, mandando fuori giri il suo motore sociale. Quando la nebbia invernale si dirada sembra che la conchiglia di un’ostrica si apra per mostrare una perla dove il turismo tossico è un problema inesistente e le vacanze diventano una questione per pochi borghesi che hanno ereditato vecchie ville e cascine.
I dettagli su cui Guadagnino indugia sono quelli dell’infanzia, della casa dei nonni; i muri scrostati, le porte cigolanti, la porcellana di una volta, i soprammobili anacronistici come una foto di Mussolini appesa sotto un portico, la tavola all’ombra dei tigli ancora da sparecchiare che diventa aperitivo per mosche. L’ordinata, discreta e studiata sciatteria di chi si libera finalmente dagli usi e costumi lavorativi, o semplicemente dell’insicurezza, delle regole sociali auto-imposte, abbandonandosi alle fantasie, cercandole e desiderandole. Quello che rende così caldo e avvolgente Chiamami col tuo nome (ma anche così capolavoro, se posso) è l’inscindibilità tra l’amore che racconta e i luoghi in cui sboccia, come se fosse possibile solo nella Bassa, dove le leggi che regolano il mondo sembrano sospese da un DPCM firmato da qualche divinità benevola, Loggia Nera della bellezza e della scoperta di sensazioni sopite. L’odore della campagna, quello così particolare da sentirsi solo d’estate, diventa quello dell’altro, di un letto disfatto, di vestiti tolti in preda a una foga animalesca. La pellicola smette di essere tale, perfino la recitazione pare essersi interrotta improvvisamente, diventando per chi guarda, ormai più voyeur che spettatore, puro turismo emotivo.
La verità è che si possono fare i viaggi più esotici, lavorare o studiare all’estero, vivere nella grande città, ma se abbiamo lasciato entrare nel cuore la campagna, se nei polmoni ha circolato quell’aria, se la pelle si è abbronzata sotto quel sole, se lo stomaco ha assaggiato quei salumi, vini, formaggi, ad ogni giugno scollinato in luglio la testa andrà sempre là, come a voler rivivere quell’amore estivo che di avventura aveva poco, che ci ha insegnato tutto, trasformandoci, incasinandoci, distruggendoci per risorgere, o forse rimanere intrappolati in un eterno ricordo la cui intensità non potrà mai essere eguagliata. Le stesse abitudini anno dopo anno, tramandate, intime, rituali, mentre noi invecchiamo, passiamo, e tutto il resto rimane identico, rurale.