Nintendo, tra il futuro e la storia
Inizio questo post con una doverosa premessa, perché l’ultima volta è finita un po’ male e non vorrei passare di nuovo per l’hater di turno. Ho visceralmente amato Nintendo per un lungo periodo della mia vita videoludica, cominciata con il primo Game Boy mattone e proseguita in un tourbillon di Pokémon, Super Mario e Wario, senza ovviamente dimenticare tutto il caleidoscopio che passa nel mezzo (ché sennò non si finisce più), non mancando di prendere ogni nuova versione del Game Boy e comprando un numero infinito di Game Boy Advance, tra versioni lisce, SP e Micro. Il GameCube è stato il mio compagno principale per quanto riguarda la scorsa generazione di console: se il gioco era multipiattaforma, la mia scelta era la versione minidisk per il dolceforno viola made in Kyoto. Poi, ovvio, le esclusive: a parte il tennis, sport che videoludicamente non riesco ad apprezzare come vorrei, ho giocato tutti gli sportivi in cui c’era il faccione di Mario, senza contare i Mario Party, Mario Kart e Mario laqualunque. Mi sono fatto due mani così sui bonghi di Donkey Kong Jungle Beat, ho passato mesi nella mia città di Animal Crossing e mi sono lasciato cullare dalle onde di Wind Waker, ma ho anche spremuto con gusto varie esclusive giapponesi, grazie al mai così comodo freeloader, tra le quali spicca indubbiamente quella gemma incompresa di Kururin Squash. Poi c’è stato il grande momento delle rivoluzioni, dapprima col DS, altra console che possiedo in più versioni e che ha visto alcuni fra i momenti più felici della mia vita da videogiocatore, e il Wii, che forse non è stato significativo per me quanto per l’industria e i suoi gozzilioni di acquirenti in tutto il mondo. Però, insomma, Nintendo è Nintendo, conosco i suoi pregi e sono stato “vittima” dei suoi sortilegi, fatti di divertimento e di quella inspiegabile quanto tangibile Nintendo Difference, per lunghi anni della mia breve vita da videogiocatore.
Uno dei grandi pregi di Nintendo, nel bene e nel male, è quello di essere una compagnia mai banale, incapace di rimanere uguale a se stessa e all’industria e per questo, se vogliamo, anche un po’ ribelle nel suo squisito rigore nipponico, stupendo sempre il pubblico con console diverse dall’ordinario e con idee geniali, a cui la concorrenza non può che guardare con gelosia, al punto da venirsene fuori con imitazioni capaci solo di attirare le risate di internet. Dal debutto dello stick analogico su Nintendo 64, passando per l’apparente conformismo del GameCube, che da un lato rimaneva ancorato a un passato di supporti proprietari e dall’altro proponeva grilletti analogici (presenti anche su Xbox, che però arrivò due mesi dopo) e anticipava i pad senza fili (con il WaveBird), senza dimenticare l’esperimento fallito del Virtual Boy, comunque dimostrazione della totale mancanza di banalità della grande N, fino ad arrivare, in epoca più recente, al riuscitissimo Nintendo DS, capace di vincere la battaglia con la ben più performante PSP grazie anche alla forza di un’idea non particolarmente innovativa, ma applicata in maniera sempre diversa e vincente, tanto da convincere milioni di acquirenti in tutto il mondo. Nintendo ha sempre introdotto nuovi elementi col suo hardware, rivelandosi sempre pronta a sperimentare nuove soluzioni e nuove idee per affascinare il pubblico e attrarlo tra le sue braccia.
Detto ampiamente della parte hardware, ora bisogna passare alla parte software creata dalla casa di Iwata, che alla fine era quello di cui volevo parlare in primo luogo. Nonostante una capacità sopraffina nello sviluppo, una sfilza di proprietà intelletuali entrate di diritto nella storia del videogioco, tanto da esservi ormai cristallizzate per sempre come Han Solo nella grafite, e un numero elevatissimo di personaggi entrati nell’immaginario collettivo (nonostante scelte di marketing discutibili), anche tra quelli che non hanno mai giocato neppure con gli smartphone o col solitario del PC, è quasi triste constatare che le proprietà intellettuali di Nintendo non hanno mai goduto dello stesso brio creativo di cui ha giovato il reparto hardware.
Fermi coi forconi, un secondo: non sto dicendo che i giochi Nintendo siano brutti, anzi. Se la riproposizione costante di un’idea continua a raccogliere consensi da tutto il mondo, incessantemente, da trent’anni a questa parte (citofonare Super Mario), ci sono soprattutto due motivi. Il primo, scontato, è che la base di partenza di tutti i franchise Nintendo è buona. Dannatamente buona. Il secondo, a cui forse non tutti danno il giusto peso quando si parla di Iwata & co., è che in quel palazzone bianco di Kyoto risiedono dei luminari del videogioco, capaci di limare e impreziosire ogni volta un’esperienza videoludica già vista e farla risultare fresca, nuova e divertente come la prima volta, come se fosse la cosa più naturale del mondo. E non è poco, anzi, sapete meglio di me quanto c’è bisogno nell’industria odierna di gente capace e ispirata (o forse “solo” libera di esprimersi) come Miyamoto, Aonuma e compagnia. Insomma, i giochi Nintendo sono belli e ti tengono incollato come la prima volta anche con un 7 in coda al titolo, non si discute.
La luccicanza di Miyamoto e soci, tra l’altro, è anche testimoniata dal fatto che Yoshi Touch & Go, Kirby Canvas Curse e moltisimi titoli first e second party Nintendo per DS hanno proposto per primi delle meccaniche di gioco che tutti, ormai da qualche anno, ci portiamo quotidianamente in tasca attraverso le app dei nostri smartphone. Quello che più mi lascia perplesso, però, è che in oltre quindici episodi di Zelda, dopo l’ammaliante parentesi di Ocarina of Time, l’unica uscita capace di sviare un po’ dalla formula originale sia stata Wind Waker, e solo perché proponeva quella grafica lì, di cui tutti erano spaventati a morte prima di mettere mano al gioco e innalzarlo, per l’ennesima volta, allo status di capolavoro. Discorso parzialmente diverso per Mario, che di episodi rivoluzionari ne ha visto più di uno soprattutto grazie al suo status di million seller inattaccabile (sapete com’è quella storia dell’avere Mario nel nome, no?). Super Mario 64 ha fatto la storia tanto quanto i suoi predecessori, Sunshine ci ha provato senza crederci troppo e i due Galaxy, nonostante una bellezza abbacinante, non sono stati testimoni di un’era quanto lo fu l’episodio per Nintendo 64. Ultima, ma non meno importante, la miscela di elementi 3D e 2D proposta dall’inedito 3D Land che, manco a dirlo, funziona benissimo. Per non parlare di Metroid e F-Zero, che dopo le parentesi “novità” su GameCube sono sostanzialmente scomparsi dai radar.
Mario a parte, l’impressione è un po’ quella che, arrivati a un certo punto nella storia di un franchise, a Nintendo venga meno la voglia di sperimentare, anche per mancanza di una novità che li sproni ad abbandonare la strada vecchia per la nuova... in un certo senso mi è testimone la saga di Pokémon, che prima di rifarsi il look ci ha messo quasi quindici anni. È come se, guardando F-Zero GX, in Nintendo si fossero detti “OK, questo è, anche se gli cambiamo la grafica la sostanza non cambia, non vale la pena metterci dietro un team di sviluppo e spenderci dei soldi”. Lo stesso discorso vale per Metroid: l’apice è stato raggiunto sia con la formula classica che con gli FPS, non ha senso aggiungere cose tanto per fare qualcosa. Non per Nintendo, almeno. E intendiamoci, anche se poco condivisibile in termini di mercato (sia dal punto di vista aziendale che dal punto di vista di noi giocatori), artisticamente è un discorso mirabile, e può solo che fare onore alla casa di Iwata.
D’altro canto, c’è un’altra triste realtà di cui tenere conto: il cambiamento spaventa a morte l’utenza. Il videogiocatore medio è avvezzo al cambiamento creativo quanto un calvinista e, sebbene stiano tutti a gridare al piattume e alla pochezza innovativa dell’ennesima iterazione annuale di qualsivoglia saga, quel nuovo episodio della roba già vista e rivista vende mediamente di più di una nuova proprietà intellettuale, creando un circolo vizioso dal quale è difficile uscire. Anche se, probabilmente, in tutta l’industry Nintendo è proprio l’unica che potrebbe permettersi di fare il bello e il cattivo tempo proprio grazie alla sua storia di successi “ad orologeria” cui ci ha abituato. La fanbase c’è, è enorme, e sebbene magari con un po’ di delusione, saprebbe sicuramente reggere il colpo di un episodio “strano” di una saga storica. Anche perché tornare alle origini dopo un divertissement momentaneo sarebbe relativamente facile e indolore... per dire, prima di vedere l’immagine qui sopra, scommetto che molti avevano rimosso Super Princess Peach (che, in tutta onestà, era un platform apprezzabile).
Insomma, perché non essere coraggiosi come in campo hardware e, chessò, proporre un The Legend of Zelda in ambientazione steampunk, o magari uno in cui Zelda è effettivamente la protagonista del gioco e non solo la prestanome nel titolo? Se si è certi di aver raggiunto l’apice in qualcosa, perché aspettare necessariamente un’innovazione hardware per implementarla e non provare a cambiare anche solo un elemento già esistente per il gusto di vedere cosa succede? Sono già passati anni da quando Nintendo ha deciso di smettere di seguire la corrente di Sony e Microsoft, e sebbene a conti fatti questa si sia rivelata una scelta vincente, dal punto di vista videoludico questa posizione contradditoria, in bilico tra futuro e passato, lascia un po’ perplessi e non sempre fa capire al meglio le vere intenzioni di Nintendo. Insomma, il potenziale c’è, ed è enorme... bisognerebbe “solo” applicarlo in maniera insolita.
L'immagine in apertura è tratta dai concept artwork di The Legend of Zelda Clockwork Empire, realizzati da Aaron Diaz e ispirati dal video di Anita Sarkeesian Video Game Tropes vs Women.