«Qui sembra di stare a Silent Hill (2)!» | Racconti dall’ospizio
Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.
Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, non dico che i survival horror fossero l’equivalente dei picchiaduro a incontri o dei platform per le generazioni di console precedenti, ma quasi.
Resident Evil aveva raccolto la staffetta dai seminali Alone in the Dark e Clock Tower, e in via delle atmosfere romeriane e del taglio altamente cinematografico, era stato festeggiato dalla maggior parte dei giocatori con una ola lunga così. Va anche detto che la semplice messa in scena non sarebbe stata sufficiente, in termini di suspense, se non avesse avuto sotto al culo quel gameplay ibrido, che prendeva in prestito la grammatica delle avventure grafiche e la mescolava con un’azione “in difetto di potenza”, che spingeva il giocatore a giocare in difesa e a centellinare armi e bagagli.
Una strategia evasiva, insomma, più o meno come quella che stava facendo la fortuna degli stealth, primi cugini dei survival horror, ma spesso anche l’unica possibile, con quei carri armati di personaggi.
Comunque, al successo di Resident Evil, i competitor non tardarono a rispondere. Soprattutto una Konami ancora in vena di videogiochi, che per fronteggiare il talento di Shinji Mikami, pensò bene di rivolgersi a Keiichiro Toyama, ex studente d’arte che si era fatto le ossa collaborando, tra le altre cose, con Hideo Kojima, in seno allo sviluppo di Snatcher.
Anziché ingarellarsi nel tiro agli zombie, Toyama preferì puntare su un’avventura dalle atmosfere più striscianti e dai movimenti meno ingessati. Capace pure lei di sfociare nel body horror, chiaro - ché sennò in quegli anni non andavi da nessuna parte - ma più vicina alle atmosfere à la Lovecraft del primo Alone in The Dark.
Va anche detto che Silent Hill aveva un nucleo bello potente, altrimenti non sarebbe riuscito a scrollarsi di dosso le fonti fino a raggiungere, con gli anni, quello stato di topos narrativo capace di generare meme e modi di dire, tipo: «che cazzo di nebbia, pare di essere a Silent Hill!»
Ma tornando ai fatti di vent’anni fa, agli occhi dei giocatori, Silent Hill passò per l’alternativa fighetta a Resident Evil e si guadagnò la sua brava fanbase. La stessa fanbase che rimase leggermente spiazzata quando, nel 2001, Konami se ne uscì con questo sequel, che metteva da parte le vicende della famiglia Mason per ripartire con una storia totalmente nuova, a parte la unità di spazio e nebbia.
Val la pena di ricordare che, nel frattempo, Toyama aveva lasciato il Team Silent per andare in SCE Japan Studio a creare la serie Siren. Il sequel venne così affidato a Masashi Tsuboyama, affiancato dal direttore artistico Masahiro Itō e da Akira Yamaoka, già responsabile del sound design del primo Silent Hill.
Mettendo momentaneamente in pausa la mitologia originale e spingendo a manetta sul clima onirico, il team tirò su questo suggestivo percorso di “elaborazione del male” a metà tra Delitto e castigo e Strade perdute (con quest’ultimo ancora fresco di sala).
Ora sarebbe il momento di dire che io ero uno di quei fan spiazzati eccetera eccetera, ma la verità è che quando lo recuperai nel 2005, Silent Hill 2 era già un cult, status che non mi azzardai a mettere minimamente in discussione, e che non mi azzardo a discutere nemmeno oggi. Premesso che non ci faccio un giro da parecchi anni, se lo chiedete a me, il secondo Silent Hill batte il primo praticamente sotto ogni aspetto.
Lo preferisco per la scrittura malinconica e meno sfacciata, ad esempio, capace di non scomporsi troppo persino di fronte a quel Pyramid Head che negli anni è diventato praticamente il simbolo della serie. Ma lo preferisco anche in termini di esperienza di gioco. Oddio, ripeto, magari la memoria mi gioca brutti scherzi, ma mi pare di ricordare un level design organizzato e sintetico, e un set di enigmi meno banali della media.
Per me, insomma, Silent Hill 2 resta po’ il capitolo essenziale della serie, quello che è riuscito a masticare meglio un certo tipo di meccaniche e che l’ha spinta verso la direzione (più o meno) antologica che ha finito per diventarne un po’ il marchio di fabbrica, assieme alla nebbia.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata ai vent'anni di PlayStation 2, che potete trovare riassunta a questo indirizzo.