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Signora! La recensione di The Order: 1886! AHRF!

Signora! La recensione di The Order: 1886! AHRF!

The Order: 1886 è un bel gioco: bello nel senso che è bello, esteticamente, e gioco nel senso che, ogni tanto, capita di fare delle cose con il pad. Tuttavia, quando mi chiedono “com’è The Order?”, rispondo sempre con la faccetta storta e mugugnando un “meh” che non potrebbe essere più lontano da un travisabile “è un bel gioco”. Perché insomma, l’interpretazione è importante e laggente non sempre capisce i concetti riassunti in quattro parole. Quindi vi dico già che finirò per usarne qualcuna di più. The Order: 1886, visivamente, è indiscutibilmente bello. Molto bello. E non solo perché ha una grafica finalmente in grado di giustificare il salto alla next gen (Ryse è più o meno da queste parti, e non a caso infilerei entrambi in un limbo ideale etichettato “roba che non sfigurerebbe su PC”), ma anche perché sfrutta le luci e l’illuminazione degli ambienti in maniera incredibilmente fotorealistica, tanto che spesso e volentieri capita di rigirarsi per le mani un pamphlet, consapevoli dell’inutilità del gesto (sempre che non v’interessino i Trofei), per il semplice gusto di vedere tutte le riflessioni della luce sulla carta. E sì che anche l’animazione del polso è di un fluido che levati, ma comunque. In generale, tutto il gioco è pervaso da una forza stilistica impressionante.

Quantificassimo le componenti che fanno The Order: 1886, probabilmente troveremmo più un’opera cinematografica che videoludica… e sia ben chiaro, dico questo assolutamente senza malizia, anzi: tanto di cappello a Ready at Dawn per aver azzeccato il taglio registico, le inquadrature e alcuni momenti davvero cinematografici, in grado di dare davvero l’”effetto wow” che tanto volevano e che noi, probabilmente, da giocatori non sapevamo neanche di stare cercando, immersi come siamo nelle rughe di Kevin Spacey e in tutte le altre gimmick di facciata viste negli ultimi anni. Che poi, intendiamoci, non sono neanche così sicuro di dove voglia andare questa strada, ché uniformare due medium diversi come il videogioco e il cinema è sì affascinante ma anche tanto “pericoloso”, con tutte le restrizioni e la rincorsa a un’estetica derivata che comporta, ma sono comunque piuttosto convinto che Ready at Dawn volesse esattamente quello che si vede in The Order: 1886: un prodotto cinematografico in cui “fai cose col pad” e che, allo stesso tempo, è in grado di alzare sensibilmente l’asticella tecnica, sia per quanto riguarda la componente grafica, sia per quanto riguarda la capacità di sembrare davvero un film in cui è possibile veicolare le azioni del protagonista.

Anche perché lo stacco tra le numerose scene di intermezzo e i momenti in cui capita di “fare cose con il pad” è davvero inesistente: non si avverte mai una differenza grafica di alcun tipo, non c’è mai un cambio di inquadratura repentino, non c’è mai un caricamento. Per quanto si tratti di cose apparentemente piccole, ritrovarsi davanti a un videogioco che finalmente prova a raccontarti una storia in maniera cinematografica sapendo cosa fare e come farlo è rinfrancante. E se riesce ad esserlo è soprattutto per queste cose apparentemente piccole che, però, fanno tantissimo in termini di percezione, tanto da cancellare immediatamente dalla memoria tutto quello che è venuto prima, da David Cage agli altri videogiochi che hanno sacrificato il ludus sull’altare dei fratelli Lumière.

Io, se deve proprio venire il mondo dei cinevideogiochi, voglio tutto con la qualità di The Order (e superiore), anche con le bande nere e i 24 fps. Nella foto: aiutare Perceval con il carretto. Sto ridendo ancora adesso.

Non è quindi un caso che i problemi di The Order: 1886 arrivino quando il filmato finisce e la palla passa al giocatore. Anzi, considerando la diegesi costante con cui viene raccontato The Order, il filmato non finisce, ma semplicemente il controllo dell’inquadratura e del protagonista, Sir Galahad, passano a chi tiene in mano il pad, che in quel secondo viene colto alla sprovvista: deve fare regista, direttore della fotografia e omino svaccato sul divano che vuole giocare, tutto allo stesso momento, senza neanche accorgersene. Roba spiazzante. Tanto spiazzante che il risultato è praticamente cacofonico.

Vi faccio un esempio assurdo che però può aiutarvi a capire la situazione, seguitemi un attimo: immaginate di avere un amico che sta girando un film. Un amico capace, non sarà Kubrick ma è oggettivamente bravo, così come i compagni di corso/amici/whatever che lo aiutano a curare il film nei suoi vari aspetti. A un certo punto l’amico si rompe tutte e due le braccia, il tizio che curava la fotografia lo molla per fare il galoppino del primo YouTuber che passa e l’altro tizio che faceva le riprese viene rapito dall’ISIS. Ve l’ho detto che era un esempio assurdo. Comunque, l’amico regista è talmente disperato che dà a voi, l’amico caccoloso che il cinema lo vede giusto quando passa nel centro commerciale, la responsabilità di girare le scene che mancano per chiudere il film. Il set è quello, gli strumenti per girare e gli attori anche. Solo che voi siete dei cani maledetti a cui hanno dato troppe libertà rispetto alle capacità richieste per gestire la situazione in maniera decorosa. Il risultato è evidente: momenti carichi di pathos che si concludono con la telecamera che inquadra un tubo di rame che passa per il muro; scene in cui un campo largo si tramuta in un primo piano sui baffi del protagonista e momenti in cui, per capire se la telecamera sta funzionando, vi ritrovate a inquadrare la stanza in tondo come dei deficienti. Ecco: l’amico regista capace con le braccia rotte e la crew dispersa è Ready at Dawn, e il cane maledetto che rompe tutto è il giocatore di The Order.

Cosa voglio dire con questo? Mi sto forse lamentando del fatto che un videogioco sta provando a farci effettivamente interagire con quello che viene raccontato? Forse sì, non lo so neanche io. Forse è che nelle altre opere interattive non ti senti sporco a smanacciare con la roba d’altri, ché tanto con la roba Telltale giochi intorno ai bug e alla grafica meh e con la roba di David Cage vuoi solo arrivare alla fine per capire dove andrà a parare la trama (e lamentartene). Comunque, in quel secondo in cui realizzi che la cutscene non andrà avanti da sola ma sei tu che devi portare avanti le cose, come dicevo, ti senti un po’ spiazzato, finanche responsabilizzato. Roba di un attimo, che però “rompe” un po’ il lungo momento cinema e ti fa pensare che, in qualche modo, The Order sarebbe stato meglio senza di noi e la nostra morbosa incapacità registica.

Una volta che si passa all’azione, The Order è soprattutto un third person shooter (lo scrivo in inglese perché “soprattutto” e “sparatutto” messi vicino sono ridondanti, non ringraziatemi) con le coperture senza infamia e senza lode. Non è certamente brillante, ma non è neanche rotto: si limita a fare il suo offrendo muretti, un numero risicato di armi e, di tanto in tanto, un fucilone smodato con cui fare danni incalcolabili, tanto per vivacizzare un po’ le cose. Oltre alle fasi sparacchine, ci sono un paio di “puzzle” necessari per aprire porte (niente che non possa risolvere anche un primate) e delle sezioni stealth, in cui è necessario arrivare dal punto A al punto B senza essere scoperti, pena morte istantanea e riavvio dall’ultimo checkpoint. Robe inspiegabilmente gustose, probabilmente proprio perché contemplano il fallimento, quel trial and error mai pedante (i caricamenti sono fulminei) che fa tanto videogioco di una volta e che pure ci piace tanto. Ci sono anche dei quick time event, ma sicuramente meno (molti meno) di quanti ve ne aspettereste da un’opera così smaccatamente cinematografica, e tutti funzionano senza dare particolari fastidi e senza protrarsi troppo a lungo.

The Order: 1886 propone quindi del gameplay piuttosto canonico e funzionante, assolutamente scevro da particolari guizzi e che, in quanto tale, è tutto meno che memorabile… sopratutto se si considera che ogni singola scena del gioco è ambientata in un corridoio arredato in modo diverso. Un corridoio piccolo, per giunta: laddove The Last of Us ti dava abbastanza spazio per perderti pur offrendo una sola via d’uscita, il povero Sir Galahad gira l’angolo per trovare nient’altro che vicoli ciechi e delusioni, ché i “collezionabili” sono pochi e quasi sempre ben visibili. Da qualche parte nel mondo c'è un Surgo che piange.

Insomma, così come Destiny (leggete la recensione per capire il riferimento a Surgo, ndN) fa tutto bene senza reinventare la ruota, The Order fa Gears of War senza portare la rivoluzione che ha portato Cliff Bleszinski quasi due lustri fa (mioddio sono passati nove anni da Gears of War). E, intendiamoci, per quanto non sia di per sé un punto negativo per Ready at Dawn, è anche inevitabile che un “compitino di gameplay” preso di peso da dieci anni fa, per quanto ben fatto, messo in una cornice che potenzialmente può cambiare il modo in cui viene raccontata la trama in un videogioco, finisce per sfigurare, o quantomeno non essere all’altezza.

Per certi versi, si può dire che l’unico vero pregio del gameplay di The Order sia che spezzetta una trama tutt’altro che entusiasmante e che probabilmente, fruita nella sua interezza e senza stacchi, darebbe un’impressione ben peggiore dell’anonimato che lascia una volta finito il gioco. Il 1886 ucronico di Ready at Dawn, per quanto interessante nelle premesse e apparentemente studiato con un certo criterio, finisce ben presto per rivelarsi un pot-pourri di elementi e scelte narrative legate insieme in maniera piuttosto conveniente, e non qualcosa di organico e/o coerente. Il risultato è che, tra un capitolo e l’altro, la storia di Sir Galahad e dei cavalieri dell’Ordine rimane sfocata, sullo sfondo rispetto ai mille pretesti di una trama che, nonostante continui a infilare idee che starebbero bene nel contesto (Cavalieri di Re Artù! Santo Graal! Nikola Tesla! Rivolte popolari! Lupi mannari! Governo ladro! Vampiri! Jack lo squartatore in anticipo di due anni sulla tabella di marcia!), risulta comunque vagamente prevedibile e, in definitiva, poco interessante.

Volendo sintetizzare, se la componente tecnica prova e ci riesce, il gameplay non ci prova nemmeno e la trama parte bene, con un mondo di gioco apparentemente ben congegnato che finisce per perdersi nell’anonimato di troppe idee buone, esposte però tutte insieme nello stesso momento.

È un po’ come quando da supergiovani capitavamo sulle televendite di Roberto da Crema, che tutti guardavamo incantati dai suoi baffi poderosi e per la sua istrionica verve esplosiva, rendendoci conto però che delle pentole non ce ne saremmo mai fatti un cazzo e realizzando solo a posteriori che, se non fosse arrivato un gioco di baffi con cui tirare fuori un’analogia tirata per i capelli, nessuno, dopo vent’anni, si sarebbe mai ricordato di Roberto da Crema.

Speriamo che vada meglio a The Order.

Ho giocato a The Order: 1886 dopo averlo acquistato usato, due settimane dopo l’uscita, a 9 mirabili euro (lo so che ci tenete a sapere certe cose). Tra l’altro è un po’ assurdo: tutti si lamentano che il gioco dura sì e no otto ore e poi, per trovare il primo usato nei negozi, devi aspettare due settimane. Comunque la longevità è una roba che si usava per vendere le riviste all’epoca di Roberto da Crema: la verità è che The Order dura forse anche fin troppo per quello che ha da dire, ma comunque non annoia ed è molto più interessante, in prospettiva, di quanto non si pensi (e di quanto non lo fossero le televendite di Roberto da Crema). La vera verità è che se fosse uscito al lancio di PS4 sarebbe stato quello che è stato Ryse per Xbox One (una tech demo impressionante, dal gameplay rubato da una serie recente e di successo e con una storia appena sufficiente per non suicidarsi), con in più un’incredibile dimostrazione per quello che mi auguro sarà la mise en scène standard nei “giochi narrativi” da qui alla prossima, inaspettata, rivoluzione. Un anno dopo il lancio, in un mondo che si aspettava la prima grande esclusiva PlayStation 4, The Order: 1886 è “solo” una sensazionale scatola vuota, una pentola senza coperchio, un film di Nolan con alcune scene girate nel 2002 da Uwe Boll. Siccome sono un paraculo e non riesco a tirare fuori un voto singolo che riassuma tutto senza farmi i patemi, qui sotto vedete il risultato dei voti per tecnica, gameplay e trama, sommati insieme e divisi per tre. Un voto che, se possibile ancor più degli altri, non conta un cazzo di niente: se siete curiosi andate là fuori, comprate il gioco, finitelo e fatevi la vostra idea.

Voto: 9+6+5 = 20/3 = 6,66

(= Roberto da Crema è Satana)

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