Toy Story 4 e... la retorica del posto fisso? La crisi di mezz’età? La voglia di figa?
Immaginate. Avete trent’anni, navigate a vista nel mare dei contratti a progetto, c’avete il culo parato ma non troppo e state lavorando a cose che vi piacciono ma che non sono davvero la vostra passione. D’altro canto, se vi alzate tutte le mattine per fare quello che fate, è perché non vi fa schifo avere i weekend liberi, avere un tetto sopra la testa, mangiare. Del resto, vedete spesso un sacco di altra gente che fa quello che vorreste fare di mestiere e, per quanto la testa vi dica che è una cazzata, che sono matti, che hanno dormito l’ultima volta nel ‘92 e se pagano le bollette è solo perché si sono trovati una matta che non li fa vivere in mezzo a una strada, oh, un po’ la voglia di mandare a fanculo le sicurezze e fare l’ultimo passo verso la demenza senile vi viene.
Toy Story 4, per quanto impossibile, è esattamente la metafora di ‘sto fatto qui: dopo averci fatto piangere tutte le lacrime di questo mondo alla fine del precedente episodio, Woody, ancora orfano di Andy, pensava di poter ritrovare la stessa passione e la stessa voglia di fare anche con Bonny, nuova figlia del capitalismo in rampa di lancio. Ma per quanto si sbatta, lo sceriffo di pezza non si ambienta nella nuova realtà e viene trattato a pesci in faccia da tutta la schiera di nativi digitali, che sono troppo più smart e seducenti di lui, complice anche il fatto che, tra un datore di lavoro e l’altro, l’operazione alle corde vocali ha barattato il fascino amichevole con uno un po’ più vissuto.
Woody si sbatte per tutto il film nel tentativo di fare breccia nel nuovo ambiente, anche perché è la definizione dell’eroe col palo nel culo che deve per forza piacere a tutti, e potete capire l’onta di passare dall’essere capo d’azienda a ultimo degli stagisti. Si sbatte a tal punto che, manco fosse un film di Hitchcock, i 140 minuti di film vanno via inseguendo il MacGuffin iniziale, costruito solo per metterlo in moto e fargli ricordare quanto si stia bene col culo sulla poltrona, al caldo di una casa dove mangi tranquillo per quei tredici, quindici anni, prima di goderti una pensione dorata. Certo, non sarà il massimo della vita, ma vuoi mettere quegli sfigati che dormono sotto il cartone?
Poi, però, a una certa il film rallenta la cavalcata aziendalista, comincia a spiattellare di qua e di là, e soprattutto Woody si ricorda di quando ancora la menopausa non l’aveva colpito (“Qual è il tuo anno di produzione?” “Dev’essere stato il ‘52!”), complice anche una vecchia compagna di liceo che, nonostante qualche acciacco, ha mantenuto una pelle di porcellana e ha tantissima familiarità con le pecore. “Ho un serpente nello stivale”, dice, ma forse bisogna cercarlo più in alto, nei pantaloni. Sta di fatto che, intorno a una missione di estrazione piuttosto prevedibile, in Toy Story 4 c’è soprattutto la crisi di mezza età di Woody, un vecchio matusa bacchettone che, improvvisamente, una volta uscito di casa, realizza che aver passato la vita a rendere migliore l’infanzia altrui gli ha impedito di avere una crescita, un’adolescenza, una vita che fosse degna di essere vissuta e ricordata. Impegnato com’era a inseguire il fatturato, le sicurezze di un caldo abbraccio capitalista, la scalata gerarchica e tutte quelle minchiate di cui si era riempito il cervello per stare tranquillo, alla prima primavera bolscevica gli è partita completamente la brocca, mollando baracca e burattini per inseguire una bambola (non necessariamente gonfiabile). Non so se a ragione o meno, ma di sicuro è la prima volta in quattro film in cui il personaggio non mi è parso un odioso rompicoglioni… non per tutto il film, almeno.
Al netto di tutto, comunque, Toy Story 4 è un film gradevole. È sicuramente il più debole della quadrilogia, ma allo stesso tempo, complici un andamento ondivago e una prevedibilità disarmante, lascia abbastanza spazio a dei comprimari divertentissimi (segnalo un Duke Caboom doppiato da Corrado Guzzanti/Keanu Reeves) e a una realizzazione tecnica clamorosa. Non so che rapporto abbiate con la serie, io ero uno di quelli che pensavano avrebbero rovinato tutto col terzo e alla fine avevano pianto tutte le lacrime che avevano in corpo, rifiutandosi di vederlo una seconda volta. Sta di fatto che qui non sapevo cosa aspettarmi, non avevo grandi aspettative e mi sono ritrovato con un film per bambini/ragazzi che, invece di venderti l’avventura e il fascino dell’ignoto come una volta, la butta dal minuto zero su quanto sia bello avere il posto fisso, facendomi tirare in ballo capitalismo, crisi di mezza età e la voglia de scopà. Poteva andare meglio?
Ho visto Toy Story 4 grazie a un invito del distributore italiano. L’ho visto doppiato, dove tutti fanno un onesto lavoro tranne Luca Laurenti, che del resto non sa parlare normalmente, non è che potessimo aspettarci qualcosa di più. Spero che i PR non leggano mai questa recensione, anche perché non sarebbe male ricevere l’invito per Spider-Man: Far From Home tra qualche settimana.