L'assassinio di Gianni Versace poteva pure avere un altro titolo
Uno fra gli aspetti che più mi affascinano, all’interno del mondo della serialità televisiva, è quella del pregiudizio. Una serie TV ti ispira? Guardati la prima puntata: cerca di carpirne l’andamento e, se ti intriga, continua, altrimenti lascia perdere. Al limite, se proprio non sei convinto, vai avanti per un’altra puntata, pure due, ma poi fermati: magari migliora, ma più probabilmente no. Magari becchi Il Trono di Spade, che ha quello scoglio iniziale dettato dalle migliaia di nomi, eventi e luoghi che, buttati in faccia tutti d'un colpo, ti rincoglioniscono, non facendoti capire cosa tu stia guardando; o più probabilmente becchi Wayward Pines e aspetti che l’asticella si alzi, prima o poi. E aspetti, aspetti, aspetti fino a quando non ti rendi conto di aver buttato nel cesso svariate ore della tua vita in una serie TV che non valeva la pena nemmeno di essere guardata per sbaglio durante una caotica pausa pranzo. Tutto questo ambaradan di roba può essere circoscritto intorno al termine di pilot, che negli anni si è riconfigurato nelle sue proprietà, fino a diventare, nella forma attuale, qualcosa di completamente diverso rispetto a ciò che era in origine; nella sostanza, però, non è cambiato molto.
La prima puntata serve proprio a farti capire come quella stessa nuova serie TV sarà, e se potrà più o meno piacerti. Tutto molto affascinante, soprattutto quando noi spettatori diventiamo irrazionali, guardandoci robe improbabili che sappiamo già che non ci piaceranno, o che non ci convinceranno appieno; tutto ciò nel tentativo, forse, di sorprendere noi stessi. Io, ad esempio, speravo di stupirmi, speravo che l’impressione che mi aveva dato il primo episodio della seconda stagione di American Crime Story, sottotitolata per l’occasione L’assassinio di Gianni Versace, fosse stata ingannevole, e che la figata sarebbe prima o poi venuta a galla. E invece no. Lo sapevo, dannato me. Perché non ci ascoltiamo mai abbastanza? Perché finiamo per guardare robe che, lo sappiamo già, non ci convinceranno appieno? Perché abbiamo bisogno di mediocrità, credo; c’è la necessità di allentare il ritmo. Ché mica si può vivere di solo Mad Men, ecco. Ora che mi rileggo, forse in queste righe sono stato un po’ troppo duro con L’assassinio di Gianni Versace; probabilmente perché le aspettative erano alte, ed altre.
Della prima stagione di American Crime Story, The people v. O.J. Simpson, si è già detto un po’ ovunque: un legal drama che è soprattutto una splendida interpretazione corale, in grado di riportare sulla cresta dell’onda il suo showrunner, quel Ryan Murphy troppo spesso etichettato come produttore unicamente di serie TV di genere: robe carine ma che sì, insomma, nemmeno troppo. Ecco: The people v. O.J. Simpson è splendido, su tutti i fronti, e quindi era logico che le aspettative per una seconda stagione, ad ovvio carattere antologico, fossero abbastanza alte. l'argomento, poi, era parecchio intrigante: l’omicidio di Gianni Versace, un crimine che ancora oggi, a più di vent’anni di distanza, nasconde non pochi punti oscuri. Insomma, l’hype era palpabile. Poi, però, si è venuto a scoprire che Ryan Murphy, impegnato com’è in svariati progetti (American Horror Story, Feud, 9-1-1 e i prossimi Pose e The Politician, quest’ultimo in collaborazione con Netflix), si sarebbe messo da parte, lasciando ancora più spazio ai suoi storici collaboratori; poi si è anche scoperto che il cast era sì buono, ma di certo non in grado di eguagliare il blasone della stagione precedente. E poi, ancora, lungo il corso della stagione, si è capito che Gianni Versace, in questa stagione, c’entrava poco o nulla; un personaggio, quello interpretato da Edgar Martinez, relegato ai margini per quasi tutte le nove puntate. Il vero protagonista è infatti l’assassino dello stilista italiano, e cioè Andrew Cunanan, reso a schermo dalla splendida interpretazione di Darren Criss.
Con l'incedere degli episodi, impariamo così ad odiare tutte le nevrosi e le fobie di un villain complesso, e inedito per grossa parte della serialità televisiva a cui siamo abituati, soprattutto nella sottocategoria dei true crime. Addirittura, sono talmente tanti gli approfondimenti psicologici dedicati a Cunanan che riusciamo quasi a compatirlo, comprendendone i motivi che l’hanno portato a commettere crimini tanto efferati. Sia chiaro, ne L’assassinio di Gianni Versace non c’è alcun contorto elogio del male, semmai è il contrario: l’obiettivo è piuttosto quello di rendere chiaro come, soprattutto negli anni Novanta, l’omosessualità fosse una zavorra sociale, un peso reso insostenibile soprattutto dall’AIDS, un virus troppo spesso associato unicamente alla comunità gay, con tutto quello che ne conseguiva. Gianni Versace e Andrew Cunanan sono, in fondo, due facce della stessa medaglia: uno talentuoso e caparbio, l’altro sfortunato e frivolo, ma entrambi accomunati dai pregiudizi di un mondo vecchio, forse anche di più rispetto ai venti anni che ci separano dagli eventi narrati. Il problema è che questo metaforone è trattato in modo, spesso, fin troppo didascalico; senza contare, poi, certi approfondimenti dedicati a Cunanan, che ruotano sempre attorno alle stesse tematiche. Per non parlare della figura dei Versace: capisco che il rischio di restarne scottati, confrontandosi con un colosso della moda (seppur decisamente ridimensionato rispetto al periodo trattato), era alto, ma insomma, da qui a dedicare appena una manciata di puntate a Gianni Versace e sua sorella Donatella ce ne passa, ecco.
Questo non vuol dire necessariamente che L’assassinio di Gianni Versace sia un buco nell’acqua. Di aspetti positivi, anzi, ce ne sono eccome, soprattutto nella sua struttura narrativa, che procede per analessi progressive, in una costante decostruzione dell’omicidio molto affascinante, soprattutto perché va ad approfondire, pur romanzando, degli aspetti passati sottotraccia soprattutto in Italia. Come già detto, poi, l’interpretazione di Darren Criss è fenomenale, un vero one man show. Senza contare la presenza di diverse puntate riuscitissime, come la terza o quella conclusiva, in cui tutti i nodi vengono al pettine, riuscendo in particolare a sorprendere a dispetto di un finale, tutto sommato, abbastanza scontato anche per chi ignorava la vicenda. In soldoni, L’assassinio di Gianni Versace è un buon true crime, che si lascia guardare con piacere, seppur fra alti e bassi. D’altro canto, non si può ignorare il netto calo rispetto ai livelli cui ci aveva abituati la folgorante stagione dedicata a O.J. Simpson; per chi poi volesse approfondire l’omicidio di Gianni Versace, cercando di capire qualcosa sulla sua figura, la porta è quella: a dispetto del nome, in questa stagione di American Crime Story, i Versace sono stati lasciati ai margini.
Ho guardato American Crime Story: L’assassinio di Gianni Versace regolarmente, come ordinato dal medico, ogni venerdì sera su Fox Crime (canale 116 di Sky), fino all'episodio conclusivo della scorsa settimana. Ovviamente l'ho seguito in lingua originale, aspettandomi però, di tanto in tanto, qualche escursione in lingua italiana, visto che sì, i Versace sono italiani. E invece niente, parlano sempre in inglese. Addirittura, in un episodio c’è un flashback in una incredibilmente prospera Reggio Calabria degli anni Cinquanta in cui, nella scuola elementare frequentata dal piccolo Gianni, si parlava fluentemente inglese. Non che ci si scandalizzi per la mancanza di realismo, ma insomma, fa strano, ecco; e fa anche ridere.