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Racconti dall'ospizio #233: Il Game Boy del destino

Racconti dall'ospizio #233: Il Game Boy del destino

Racconti dall’ospizio è una rubrica in cui raccontiamo i giochi del passato con lo sguardo del presente. Lo sguardo di noi vecchietti.

Il Game Boy mi ha cambiato la vita. Quella adulta, perché da piccolo il Game Boy non ce l'avevo.

Avevo invece il Gig Gamate, un dignitosissimo tarocco cinese ricevuto in regalo per Natale dalla Banca Popolare di Milano, dove lavorava mio padre. L'unico gioco decente che avevo era un flipper, Dino Ball, ma non mi lamentavo. Del resto, a casa avevo un Mega Drive superaccessoriato, e già ai tempi sapevo che dovevo baciarmi i gomiti, per avere dei genitori che supportavano il mio amore per i videogiochi. Però il Game Boy aveva un carisma infinito, perché aveva i giochi veri, quelli capaci di impegnarti per più di una partitina sul sedile posteriore della macchina. Aveva il fascino dell'altra dimensione, del nemico, della fazione Nintendo, che mi era preclusa dalla console war dell'epoca.

Ci giocavo ad ogni occasione possibile. Il mio migliore amico delle elementari, dal quale andavo praticamente tutti i giorni, aveva Super Mario Land, Tetris e Bubble Ghost. Il vicino di ombrellone al mare aveva Wario Land, al quale giocavamo in posizioni da fachiri, accartocciati sotto le sdraio, in cerca di quel compromesso inesistente tra luminosità e riflesso dello schermo. Diciamolo subito: con tutto il rispetto per il genio di Gunpei Yokoi, quello schermo a matrice di punti era una merda fumante. Non si vedeva mai niente, ma ai tempi avevamo così tanta voglia di giocare che ce ne fregavamo.

Il Game Boy era così bello che offuscava persino il Game Gear, l'alternativa alta, bionda e con le tette grosse made in Sega. Il Game Gear aveva l'accessorio più inutile del mondo, il TV Tuner: io faccio di tutto per trasformare la TV in un videogioco, e arrivi tu e mi trasformi il videogioco in TV? Ma pippa di meno, Jerry, che con sei pile non si faceva nemmeno in tempo a finire il secondo livello di Sonic. Con il Game Boy, invece, mettevi quattro pile e te ne dimenticavi, finché la lucina "Battery" non iniziava ad affievolirsi, una trentina d'ore dopo. La tecnologia del portatile Nintendo era chiaramente inferiore, ma aveva tutto il necessario per fare dei grandi videogiochi: il cuore e la resistenza. Come un ciclista.

Sono passati gli anni, i cabinati hanno iniziato a sparire dai bar e il mio Mega Drive è stato sostituito da un 486, poi da un Pentium, poi ancora da un Pentium MMX. Ho iniziato a suonare la batteria, ad andare in skate e a interessarmi all'altro sesso. Per un breve periodo, ho rischiato di dimenticare i videogiochi, o se non altro di accantonarli come un divertimento per bambini, indegno del mio nuovo status di adolescente fighissimo (spoiler: non ero fighissimo).

Poi venne la banda larga. Ho avuto la fortuna di vivere in una fra le prime zone coperte dalla fibra ottica e sono passato direttamente dai 56k ai 10Mbit, alla faccia delle droghe leggere. Ho passato notti intere a scaricare tutte le utility possibili da Tucows, la discografia dei NOFX, le cover del tema di Zelda spacciate come tracce dei System of a Down e... un emulatore. "Emulatore GAME BOY con Pokémon Blu", recitava il titolo dell'invitante file zip sui siti P2P. Dei Pokémon non me ne fregava niente, perché cercavo di sentirmi adulto e schifavo i cartoni animati, ma il gioco l'ho fatto partire lo stesso. Fu un colpo di fulmine, più forte persino dell'esigenza di studiare per la maturità. I miei compagni di classe passavano i pomeriggi sugli integrali, io farmavo nell'erba alta per allevare i miei Pokémon perfetti.

L'università passa in un lampo, anche perché non la finisco, e per magia mi trovo catapultato nel mondo del lavoro che sognavo a sei anni, quello delle riviste. Ero sulla cresta dell'onda: suonavo la batteria in una band punk che mi piaceva un sacco, lavoravo su Xbox Magazine Ufficiale con Andrea Babich e avevo pure la fidanzata. Ero invincibile!

Fast forward: la mia band si schianta contro gli impegni della vita adulta, le riviste muoiono investite dal treno di internet e la fidanzata mi lascia per il mio (ex) migliore amico. Comprensibilmente scornato, appendo le bacchette al chiodo e rinuncio a qualsiasi sogno fuori dal comune. Mi stavo rassegnando a una vita d'ufficio che non faceva per me, all'aspettare il weekend, a mettere le camicie. Poi, all'improvviso, è tornato il Game Boy.

Sono stato a un concerto al Biko, a cinque minuti da casa mia. Nella lineup c'erano due dei miei futuri compagni di avventure: arottenbit e Pablito. Sapevo che si poteva fare musica con dei vecchi Game Boy, ma non mi aspettavo un sound così potente. Ho deciso che quella roba la dovevo fare anch'io, a tutti i costi, quindi ho comprato un Game Boy su eBay e mi sono dedicato ossessivamente alle onde quadre. Tre mesi dopo, sono salito sul palco sgangherato del Cantiere con arottenbit, in uno dei miei primi show come Kenobit. Un altro colpo di fulmine cortesemente offerto dal Game Boy. Mi sono sentito rinato e, in un certo senso, sono rinato sul serio. Mi sono rimesso a fare cazzate e a inseguire sogni poco realistici.

Lo stesso Game Boy che avevo in mano quella sera mi ha poi portato a suonare in Russia, in Giappone, in Sud Africa. Mi ha fatto trovare il mio posto nel mondo e mi ha reso una persona felice. Ancora oggi è parte della mia quotidianità, in una ricerca quasi zen dei limiti tecnici di una console portatile del 1989. La cosa più bella è che il fascino del mattone grigio trascende le generazioni, perché ai concerti (sui palchi e sotto i palchi) ci sono ragazzi e ragazze che hanno visto la luce nell'era di PlayStation 2. O anche, brrrrrrrrr, di Xbox 360.

Buon compleanno, fratello Game Boy. È bello invecchiare con te. Cento di questi giorni, soprattutto se mi decido a rifarti i condensatori nuovi.

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