La mensola di Shin X #28 - Danganronpa: dieci piccoli infami
Da sempre sostenitore di titoli bistrattati dalla critica, Shin X è passato da “difensore dei poveri” a “masochista”, da “acquirente compulsivo” a “forzato bastian contrario”. La verità è che a suo parere ogni titolo può dire qualcosa: c’è chi sbraita, chi sussurra, chi lo fa con i sottotitoli e chi lo recita in versi. L’importante è avere lo spirito di voler ascoltare. E l’antro in cui riposano questi brutti anatroccoli è la sua mensola. L’unico luogo nel quale possono diventare cigni.
Parlare di un titolo come Danganronpa necessita di una breve premessa sulla console che lo ospita. Relegata a luogo di rivalsa per titoli indie, JRPG e giochi di nicchia, PS Vita si è rivelata - almeno per il sottoscritto - un vero e proprio pozzo dei desideri. Una macchina imprescindibile, visto il parco software completamente fuori di testa. Danganronpa incarna appieno la categoria, mostrandosi come un prodotto bizzarro e profondamente nipponico. Una visual novel che un paio di lustri fa difficilmente avremmo visto approdare sui lidi occidentali.
Eppure eccolo, in tutta la sua irriverente ironia, un gioco capace di raccontare e di raccontarsi col magnetismo tipico dei veri capolavori. La narrazione fa il verso a capisaldi della letteratura mondiale come Battle Royale di Koushun Takami - per restare in terra giapponese - senza disdegnare invettive più occidentali come Il Signore delle Mosche di William Golding o Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie. In Danganronpa i protagonisti sono adolescenti inconsapevoli, reclusi in una rinomata scuola e costretti dagli eventi ad uccidersi tra loro. Solo chi compirà un delitto senza essere scoperto avrà salva la vita. Ogni altro scenario comporta l'uccisione di massa: quindi fiducia, speranza e cameratismo - i temi principali del fulcro narrativo - dovranno essere le prime "vittime".
Il gioco è semplicemente così, una narrazione che si subisce, con lo spauracchio del controllo, all'interno di una struttura non dissimile da quella dei laser game: per andare avanti bisogna compiere la scelta giusta. Tuttavia le dinamiche di gioco tengono desta l'attenzione, dissimulando con astuzia il fattore librogame. Esplorare la scuola-prigione che fa da teatro alla vicenda, cercare di instaurare rapporti più o meno amichevoli con i compagni di sventura e smascherare - ogni fine capitolo - l'autore di un omicidio sono attività che occultano perfettamente quel ruolo passivo tipico delle visual novel. A orchestrare l'intera vicenda abbiamo uno tra i personaggi più folli e irriverenti dell'intero panorama nipponico: Monokuma. Come una sorta di diabolico Doraemon, istrione e manipolatore dell'intera baracca, l'orsetto-robot è in tutto e per tutto simile ad un peluche senziente. Sin dall'aspetto, che metaforicamente incarna lo spirito dell'ambiguità e palesa il concetto di yin e yang tanto caro alla cultura orientale, Monokuma pare tutto fuorché una marionetta senza (in)coscienza. Schizofrenico, crudele, compulsivamente ossessionato dalle regole, riesce a donare all'intero racconto un'aura disillusa e grottesca.
Pur incasellato in sezioni ben precise (rapporti umani con la cricca-omicidio-investigazione-processo), Danganronpa riesce a dare spazio ai suoi personaggi con rara maestria. Seppur ammantati in apparenza da quegli stereotipi così comuni nella cultura del sol levante, gioca proprio su sicurezze e conseguenti smentite. La timida idol, la ragazza affascinante e misteriosa, lo sportivo sbruffone o l'altolocato pieno di sé. Quando pensate che un otaku in sovrappeso possa nascondere una personalità feroce e violenta, il gioco ribalta le intuizioni, trasformando un "buono" in "cattivo", ma molto più spesso delineando un buono come tale, e che tale rimane fino alla fine.
Si arriva così a quella sfumatura impalpabile e ambigua tra bene e male propria della natura umana e cuore della narrazione. I colpi di scena non mancano, sia nelle parti più simili a un gioco d'appuntamenti, che nelle sezioni alla Phoenix Wright. Posto un tantino più in alto il grado di tolleranza alle varie leggi del realismo (siamo pur sempre sotto il giogo di un orsacchiotto sadico), la sceneggiatura non perde un colpo, inanellando una serie di omicidi complessi e geniali.
Danganronpa, più d'una volta, è capace di strapparci un sorriso laconico, trascinandoci in una spirale di egoistica neutralità e gettandoci in pasto a un ebetismo proprio di chi rimane passivo in balia degli eventi. Un'apologia sul senso d'identità, il valore della speranza, l'ineluttabilità del fato e l'intima oscurità dell'animo umano.
E se pensate che questo scheletro narrativo tanto possente è portato avanti da un gruppo di adolescenti che paiono usciti da un manga di Rumiko Takahashi, e snocciolato grazie a un orsetto che sussurra "Pupupu!" ogni due per tre, solo allora potrete rendervi conto di quale capolavoro sia Danganronpa Trigger Happy Havoc.