Il vostro amichevole horror del vicinato: Diamond is unbreakable
Non credo sia sfuggito a molti che la Cover Story non è nient’altro alla fine che un pretesto per parlare di cose che ci piacciono pur essendo vecchie di qualche decennio senza sembrare dei boomer.
Quindi, con il pretesto della Cover Story dedicata agli orrori di provincia, permettetemi di riportarvi nella residenziale e benestante cittadina di Morio-chō di cui ebbi già occasione di parlarvi quale scenario di quella che a mio parere è la migliore tra le stagioni di Le bizzarre avventure di JoJo: Diamond is Unbreakable (non la più epica, badate bene, quella è Stardust Crusaders).
Fa un po’ malino pensare che la quarta stagione di questa epica pluridecennale che continua ancora ai giorni nostri, ambientata in quello che per l’autore al tempo era un futuro prossimo, conclusasi ormai esattamente trenta anni fa a novembre del 1995, parla a noi di un passato recente che era apparentemente molto più spensierato di quello che i primi duemila sarebbero stati.
Dopo l’epica di viaggio della seconda e terza stagione, che sballottarono Joestar e alleati reclutati a mazzate come da classica dinamica shonen (“un avversario è solo un amico che non ho ancora menato”) in giro per il mondo, con Diamond is Unbreakable si torna alla pace dei sobborghi residenziali, questa volta non più in una Inghilterra vittoriana da cartolina, ma in una moderna cittadina di recente lottizzazione in un non ben definito hinterland giapponese: Morio-chō appunto.
“Pace” va inteso, come praticamente sempre in questi casi, in maniera parecchio superficiale, se non sarcastica. Al pari della più dimessa Bright Falls di Alan Wake, Morio appare tranquilla, ordinata e pulitissima (siamo in una cittadina giapponese), con case praticamente prive di recinzione (tranne, chiaramente, l’inquietante mansione proprio di fronte a casa del protagonista) e passanti tanto educati che salutano sempre con la mano.
Magari non usano sempre le LORO mani, ma sono dettagli…
Eppure, come si premurerà di farci sapere entro il terzo episodio il “coraggiosissimo codardo” Koichi Hirose, primo alleato del nostro protagonista Josuke Higashigata, a quanto sembra a Morio il tasso di sparizioni è di gran lunga superiore alla media nazionale.
Qui si impone una piccola divagazione sul fatto che quello che in quasi ogni paese moderno sarebbe immediatamente causa di un’interrogazione parlamentare, in Giappone è “martedì”. Il Giappone è probabilmente l’unica nazione in cui il “diritto a sparire” sia supportato dalla legislazione, dando origine al fenomeno degli “evaporati” (ningen johatsu: evaporazione delle persone), facendo sì che sia più “normale” accettare il cosidetto “teorema di Cabot Cove” per cui in una sonnacchiosa cittadina le vittime da omicidio preterintenzionale superano le morti accidentali.
Ma se fosse solo una questione di morti violente, saremmo ancora nello shonen action thriller più o meno soprannaturale. Quello che rende Diamond is Unbreakable la più interessante tra le serie di JoJo è il riuscire ad equilibrare il “bizzarro” che da sempre sta nel titolo senza farlo sbragare completamente come succederà nelle serie successive.
Ed è proprio l’atmosfera da “mistero di provincia” a rendere in qualche modo credibile la parata di “superpoteri da classe lavoratrice” che divertiranno il lettore: dal potere di cucinare sempre la pietanza adatta del nostro compaesano Tonio Trussardi, a “Cinderella”, lo stand che permette ad una estetista di agire come una Fata Madrina, fino al metanarrativo stand dell’odioso, ma inappuntabile, mangaka Rohan Kishibe.
Cosa c’è, non avete mai visto un mangaka?
Come detto, è proprio il proscenio “provinciale” a potenziare e contemporaneamente contenere questi poteri: il mangaka celebrità che viene ad abitare in un anonimo vicinato per lavorare in pace, il cuoco bizzarro che apre un ristorante ben lontano dal centro cittadino, il misterioso centro estetico che pare esaudire ogni desiderio… ad un prezzo… contribuiscono a completare un ecosistema di voci ben più oscure: il serial killer locale condannato a morte e misteriosamente sopravvissuto che non si sa dove si nasconda, la casa abbandonata a cui nessuno osa avvicinarsi che improvvisamente viene acquistata, una fotocopiatrice che divora la gente, topi intelligentissimi che danno la caccia agli umani, il mostro che sta sulla tua schiena e, infine, il più terrificante serial killer dello shonen manga: Yoshikage Kira, colui che “vuole solo vivere in pace” continuando la sua modesta vita di impiegato invisibile ai capi ed appena percepibile ai colleghi ed indulgendo nel suo unico hobby di collezionare mani femminili.
E non è probabilmente un caso che questo faccia sì che rispetto alle serie precedenti, ma anche a quel poco che conosco delle successive, persino tra i buoni faccia la sua comparsa un potere assolutamente inquietante come quello di Okuyasu “The Hand” Nijimura, inizialmente un pericolosissimo rivale capace di cancellare dall’esistenza qualsiasi cosa letteralmente con una “passata di mano” e successivamente uno dei miei personaggi preferiti per la sua mente semplice e in fondo onesta.
Mal di testa. Male. Cancellare cose. Bene.
Morio, di cui merita citare anche il classico “Vicolo in cui non bisogna mai voltarsi indietro” con tanto di malinconico fantasma residente - non l’unico fantasma, visto che avremo anche il “Vecchio che vive nelle fotografie” possessore dello stand “Atom Heart Father” - , è quindi una vera e propria “Smallville” divisa tra persone che fanno circolare voci e leggende metropolitane e altre persone che SONO quelle voci o leggende metropolitane.
Tutti educatissimi, che salutano sempre.
Questo articolo fa parte della Cover Story dedicata agli orrori di provincia e al folk horror, che potete trovare riassunta a questo indirizzo qui.